Da uomo di guerra a uomo di pace
Da uomo di guerra a seminatore di pace. Da produttore di morte (in quanto produttore di mine), a promotore di vita. È l’ossimoro la figura retorica che riassume la vicenda di Vito Alfieri, 74 anni, ex produttore di armi, che venticinque anni fa ha affrontato una vera e propria rivoluzione esistenziale dal sapore velatamente francescano, che gli ha consentito di diventare quel che è oggi: un pacificatore. Vederlo passeggiare ora per le vie della sua Bari, con l’aria spensierata di un pensionato qualunque, non permette di immaginare che cosa Vito sia stato nella sua prima vita. Una dimensione di cui lui non fa segreto. Anzi, che confessa apertamente, quando deve testimoniare il suo cambiamento.
La sua storia di morte e riscatto passa attraverso il nome di Tecnovar, l’azienda di famiglia che lui ha ereditato e che produceva mine e bombe. Produzione che Vito, a un certo punto della sua vita, contribuirà a far finire. Non solo, egli stesso si trasformerà in sminatore tra Bosnia, Serbia e Kosovo. Da «figliol prodigo», quindi, a «buon samaritano»? «I buoni samaritani sono altri –risponde Vito Alfieri con emozione – e, non a caso, quando parlo cito spesso figure come don Tonino Bello o don Oreste Benzi che ho conosciuto personalmente e mi hanno “raccolto”, trasformandomi nel “pacificatore” che sono diventato».
La sua è una voce placida, che stride con quanto ci sta raccontando, una narrazione che parte dall’infanzia vissuta nella fabbrica del padre Ludovico: «Mio padre si era fatto da sé, avviando dapprima un’azienda di impianti elettrici, fonderia a ghisa e stampaggio di materie plastiche, divenuta poi quella Tecnovar di Bari che negli anni ’60 è stata riconvertita in azienda di produzione di materiale bellico per l’esercito italiano. Un padre, il mio, che veniva dai tempi della Seconda guerra mondiale – continua Vito –, ragion per cui non era rimasto turbato da quella “conversione alle armi”. Per lui contava solo il fatto di offrire lavoro a tanti e di trarre al contempo profitti per la sua famiglia».
In questo clima sono dunque cresciuti Vito e sua sorella, i quali, il sabato e la domenica, andavano ad aiutare in azienda, manipolando ordigni di ogni genere. Nel frattempo i ragazzi diventano grandi: Vito si laurea in ingegneria elettrotecnica, mentre la sorella Elettra in giurisprudenza. Entrambi con un futuro assicurato all’interno dell’azienda, tanto che nel 1979 avviene il passaggio di titolarità dal padre al figlio, con Vito che diventa il proprietario della Tecnovar. «Sin dal 1974 avevamo una filiera completa del materiale bellico – ricorda –. Dal ’77 in poi producevamo componenti commissionati dal ministero della Difesa egiziano che poi li assemblava per conto proprio: in tal modo non eravamo più noi a produrre direttamente le armi. E questo ci lavava un po’ la coscienza… ma non la mia!».
«Come figli, avevamo respirato l’educazione di nostro padre, che ci diceva che i “soldi curavano e giustificavano ogni cosa”. Ma a me quel mondo man mano che passava il tempo andava sempre più stretto – spiega –. Ero nato in quell’ambiente, da buon cristiano andavo pure a confessarmi, spiegando il mio disagio. Ma poi tornavo a casa e trovavo mio padre che mi definiva idealista e pacifista da quattro soldi e mi diceva che mi sarebbe passata presto quella “mania per la pace”».
«Tutto questo deve finire»
Invece, non sarebbe andata così. «Erano gli anni in cui crescevano le riletture della guerra in Vietnam – ricorda ancora Vito –, anni in cui forse per la prima volta si diceva che le mine antiuomo, che noi contribuivamo a produrre, erano state la causa del gran numero di feriti americani che avevano riportato amputazioni. Questo contribuì ad alimentare in me quel punto di rottura col mio passato, che sentivo sempre più vicino. Allora decisi di contattare una Fondazione americana di veterani del Vietnam, autori di una campagna internazionale per sensibilizzare la comunità internazionale sui danni delle mine antiuomo. E fu così che decisi: “Tutto questo deve finire!”».
Ci vollero altri anni, però, perché la decisione maturasse. «Era una sera del 1992, quando ricevetti l’inaspettata chiamata di Gino Strada, il fondatore di Emergency. Non ci conoscevamo, lui però sapeva chi ero io. Col suo proverbiale coraggio, Strada mi parlò a lungo del Kurdistan e dell’insostenibile situazione che provocava la morte o il ferimento di civili a causa delle mine». Fu un’altra spallata per Vito. Dopo questa conversazione, la frattura con il padre si fece sempre più marcata: «Giungemmo a un duro scontro verbale sul futuro dell’azienda, con mio padre che non sentiva ragioni e i famigliari che lo supportavano. Avevo tutti contro, mentre la mia solitudine era confortata unicamente dal desiderio di spezzare quelle catene».
Un dolore nel dolore, quello di Vito Alfieri, diviso tra interessi milionari e ideali che minavano un futuro che pareva già segnato. Ma fu un altro inaspettato contatto a dargli la spinta finale: «Fu una lettera inviatami da don Tonino Bello, oggi beato, allora vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, con cui mi chiedeva un incontro. Eravamo però alle porte della sua prematura morte. Quel provvidenziale invito giunse quando in azienda si stava per decidere se delocalizzare l’attività all’estero o chiudere per sempre» racconta Vito.
L’incontro con il vescovo, in realtà, non avvenne mai. Vito incontrò infatti i suoi collaboratori, dopo che don Tonino era già scomparso. «Ricordo ancora però la domanda che lui mi poneva nella lettera: “Quando lei va a dormire, sogna la prossima guerra per vendere ancora più armi?”». Una frase che trasformò in azione i dubbi di Alfieri. Così, nel 1997, a 49 anni, decise di chiudere la storica attività di famiglia. Il padre non lo perdonò, anche se, poco prima della sua morte, padre e figlio si riconciliarono. La chiusura fu per Vito un cambio radicale di vita e di rotta: «Il mio passato non si poteva cancellare. Non mi bastava chiudere l’attività per sentirmi a posto con la coscienza. Sentivo che era giunto il momento di andare oltre, offrendo una mano concreta laddove avevamo seminato morte».
E fu esattamente quello che Vito fece, diventando consulente della Campagna per la messa al bando delle mine antiuomo, promossa da Jody Williams, premio Nobel per la Pace 1997, collaborando come tecnico specializzato e testimonial di un cambiamento. Successivamente, entrò anche a far parte della Commissione nazionale per la messa al bando delle mine e assunse anche il ruolo di «esperto» nell’organizzazione internazionale umanitaria Intersos, sorta in Italia per coordinare lo sminamento del Kosovo. E proprio questa, nel 1999, divenne la sua prima missione di pace all’estero, da ex produttore di morte, una missione che per svariati anni lo avrebbe portato a operare in Serbia e in Bosnia, dove la guerra aveva lasciato segni pesanti. Qui divenne direttore delle squadre di sminatori, con rischi continui per l’incolumità personale. «Un rischio che volevo correre, come forma di espiazione», confida oggi.
Vito Alfieri ha affidato le sue memorie al libro Ero l’uomo della guerra (Laterza), ma ancora ripete: «Mi servirebbero vent’anni di meno per continuare a sostenere la pace, laddove abbiamo contribuito a seminare guerra. Non ho un bilancio da fare della mia vita. Ho solo il rimpianto di non aver fatto prima la scelta di una vita più normale. Tanti negli anni sono stati gli incontri che mi hanno fatto rinascere. Come quello con don Oreste Benzi, che durante una trasmissione televisiva in cui eravamo ospiti, mi disse: “Le vittime delle guerre ora pregano per noi!”. Una frase che mi fece sentire il supporto morale delle stesse vittime delle mine, che m’incoraggiavano a continuare nella missione. Oggi sono solo un testimone di quel cambiamento che ogni uomo può fare, anche se vivo con sconforto le sofferenze di tutte le vittime di guerra, di ieri e purtroppo anche di oggi. Ecco perché non mi stanco di tenere viva la speranza per un mondo di pace...». «Confesso – conclude – che se avessi avuto dieci anni di meno, sarei stato a bordo di una delle navi della Global Sumud Flottilla che hanno navigato verso Gaza. Perché, oggi più che mai, c’è bisogno di pacifisti e pacificatori, mentre io resterò per sempre un “convertito alla pace”, dalla doppia vita».
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