Di che mito sei
Il mito viene dopo. Prima, intendo noi ma va bene anche per nazioni, città, comunità locali, dittature, confraternite di nobili o per dubbi scopi, nasciamo, viviamo, lottiamo, amiamo e pure moriamo, e poi ci creiamo i miti delle nostre origini. I miti «fondativi». Abbiamo bisogno di narrazioni per dirci, e dire agli «altri», chi siamo o pensiamo di essere. E perciò, quindi, di provare a esserlo.
I racconti mitologici delle origini servono a definirci contrapponendoci, a tracciare un confine tra noi e gli altri. E poco importa la veridicità storica di questi racconti: nutrono, aiutano a esprimere e a contestualizzare le nostre identità, e perciò sono veri, almeno a modo loro. Sono riflessioni a posteriori: sono frutto di ciò che ci è successo, di come abbiamo rielaborato la nostra storia, che filo rosso ci pare di avervi riscontrato, a che gloriose mete per l’avvenire ci sentiamo chiamati. Servono a sottrarci all’indefinito, a tirarci fuori dal «nulla». Sono la risposta al passato di una domanda al futuro. Questi racconti, perciò, non sono mai neutri né innocenti. È bene che ne siamo consapevoli.
Fu così per Romolo e Remo, il mito dell’enfant sauvage e il fratricidio che sta all’origine di Roma. Ma così fu anche per il popolo ebraico, che fa risalire il proprio nome alla lotta notturna al guado dello Iabbok tra l’angelo e Giacobbe. Quando questi riconosce infine il suo essere nient’altro che un fuggitivo, un imbroglione, un ladro di primogeniture, a questo punto, sciancato e umiliato, gli viene donato il suo nuovo nome: Israele (Gen 32,23-33). Mica male, in un mondo dove alle proprie origini si pone di solito un eroe o un guerriero semidivino, insomma qualcuno che dia lustro alla casata (il troiano Antenore per Padova, Partenope, forse addirittura una delle sirene che avevano tentato Ulisse, per Napoli, e via dicendo)!
Quest’anno, poi, si sono celebrati i 400 anni dell’arrivo sulle coste del Massachusetts, l’11 novembre 1620, a bordo della Mayflower, di un centinaio di puritani radicali in fuga dalla persecuzione della Chiesa di Inghilterra: i famosi Pilgrim Fathers, i Padri Pellegrini. Nasceva così una nuova nazione, voltando letteralmente le spalle all’Europa e al suo autoritarismo politico e religioso, una comunità civile libera e consensuale. Peccato che i nostri Pellegrini fossero per l’esattezza testé fuggiti dall’Olanda, Paese non persecutore ma considerato corruttore per i suoi costumi libertini. E peccato che il loro patto riguardasse di fatto solo… loro, puri e divinamente predestinati. Tutti gli altri esclusi.
Si dovrebbe in realtà ricordare almeno un altro atto di nascita del Paese, quando nel 1619, non lontano da lì, in Virginia, una nave corsara aveva sbarcato un gruppo di schiavi africani, molto utili per la nascente coltivazione di cotone. Per carità, non è ancora l’America, ma molto spiega dell’America di oggi. Il suprematismo bianco e l’«America first» è bell’e che miticamente giustificato e ignominiosamente nobilitato.
Un ultimo mito fondativo, il nostro di cristiani. Lo celebriamo proprio nel giorno prossimo di Natale. Quando Dio, facendosi uno di noi, cede le armi, si umilia davanti a noi, rischia persino il nostro «no». Fa della fragilità e dell’accoglienza, della piccolezza e del dono di sé, della rinuncia alla propria forza e della condivisione con gli ultimi, della libertà e della responsabilità, della conversione dell’«io» in «noi», anzi in «noialtri», il racconto delle origini della nostra fede cristiana. Un Dio che non potremo mai invocare contro nessuno né come alibi per i nostri egoismi. Ma solo condividerlo condividendo noi stessi.
Buon Natale!
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