Nella storia il senso di ciò che siamo
«La storia è un bene comune. La sua conoscenza è un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini». Inizia con queste parole il manifesto pubblico lanciato dallo storico Andrea Giardina, dalla senatrice a vita Liliana Segre e, poco prima della morte, dallo scrittore Andrea Camilleri, per ridare dignità nelle scuole alla disciplina.
Sempre la storia tornerà a essere materia di una delle tracce della prova scritta della maturità 2020. Lo aveva assicurato l’ex ministro all’Istruzione, Fioramonti; lo ha confermato la neoministra alla Scuola, Azzolina. Più volte il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricordato che «memoria e verità sono alla base delle democrazie».
Anche il Papa torna sull’importanza di storia e memoria facendone il monito del messaggio per la 54esima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali 2020. Con «“Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria”. La vita si fa storia», tratto da un passo del Libro dell’Esodo, insiste su come sia prezioso, nella comunicazione, il patrimonio della memoria.
Tante volte ha sottolineato come non ci sia futuro senza radicamento nella storia vissuta. E come la memoria non debba essere considerata un «corpo statico», bensì una «realtà dinamica». Attraverso la memoria avviene la consegna di storie, speranze, sogni ed esperienze da una generazione a un’altra. Perché ogni racconto nasce dalla vita, dall’incontro.
Detto con franchezza: la storia non piace a tutti. Tanto più se è fatta solo di date, di eventi messi uno dopo l’altro senza un filo che li tessa insieme, di archivi ammuffiti che non hanno nulla da dire a chi vive il presente. Eppure, nonostante il nostro sguardo sia rivolto al futuro, tutto il resto è fatto di passato.
La storia «ritrovata» ha significato solo se indaga, comunica, interroga dando un senso a ciò che siamo. Acquista valore nel momento in cui la consideriamo una «materia prima» fatta non più di polvere e pietre, o di brutte pagine diventate dure come il marmo, bensì qualcosa di duttile e in movimento, più presente nelle nostre vite di quanto pensiamo.
Perché le memorie cristallizzate hanno generato ferite, divisioni, separazioni – tra «noi» e «loro» – mai sanate o risolte. Nel nostro Paese basterebbe pensare alla Resistenza, al terrorismo, fino alla lunga e sofferta ricostruzione di una catastrofe come quella del Vajont.
Agnese Moro, «verità oltre le ferite»
«Mentre il ricordo è un atto meccanico, la memoria è un atto voluto, una scelta volontaria – spiega Agnese Moro, figlia dello statista Aldo, rapito e ucciso dalle BR nel 1978 –. Ancora oggi non è possibile parlare serenamente di alcuni fatti storici presi in ostaggio dalla memoria. La nostra società ha difficoltà nel richiamare memorie dolorose, nel tirar fuori le verità dalle ferite, nel far luce su eventi che hanno scosso tante persone. E, allora, queste ferite finiscono per rimanere lì, dividendo intere collettività: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi; da una parte i carnefici, dall’altra le vittime. Così qualsiasi sguardo illuminato, non solo sul futuro, ma anche sul presente, risulta impossibile».
Anna Vescovi, «gli ho visto l'anima»
Solo per una lapide ci sono voluti quasi 50 anni. Mezzo secolo di trattative e persino una guerra sulle parole da incidere. Tutto per una nuda lastra, peraltro senza nomi. Sta sul muro dell’ex carcere di Schio a fare memoria di una notte, quella tra il 6 e 7 luglio 1945, quando «pretendendo di fare giustizia sulla barbarie altra barbarie si compì» e il sangue, come qualcuno ancora ricorda, arrivò fin giù al cimitero.
Malgrado la guerra fosse finita, 54 prigionieri detenuti (tra loro l’ex commissario prefettizio Giulio Vescovi, alcune sedicenni e due donne incinte), denunciati per corresponsabilità col regime fascista e la RSI, ma mai giudicati da alcun tribunale, furono falciati a raffiche di mitra da un commando partigiano della brigata garibaldina «Martiri Valleogra». Il partigiano a capo del commando era il ventenne Valentino Bortoloso, nome di battaglia «Teppa».
Per lungo tempo, su questa pagina di storia e memoria, è scesa una coltre gelida. Qualcuno però scombina le carte: è Anna Vescovi, figlia dell’ex commissario prefettizio. «Un giorno ho pensato che fosse giunto il momento di affrontare quella lunga scia di torti e di ragioni – racconta –. Non era un atto scontato. Ho sentito di doverlo fare da sola, senza clamori». Anna decide di incontrare proprio Valentino Bortoloso, il partigiano «Teppa» oggi ultranovantenne. L'intera vicenda è narrata nel libro La verità è una linea retta. Il padre ritrovato.
Greppi, «bene dell’umanità»
In questo viaggio dentro il confine tra storia e memoria ci accompagna Carlo Greppi, scrittore e ricercatore in Studi storici all’Università di Torino. Greppi ha collaborato con Rai Storia, organizza viaggi della memoria con l’associazione Deina e fa parte del Comitato scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, che coordina la rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea in Italia. Il suo ultimo libro è La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore (Utet, febbraio 2020 ).
«Quello che muove ogni persona che si guarda indietro è il voler andare avanti – spiega Greppi –. E la storia è uno smisurato bacino di storie, le quali compongono un “serbatoio di precedenti”, come ho letto in un commento a una trasmissione in cui ero ospite, che presenta indizi e dispensa insegnamenti per capire il presente e preparare al futuro».
Così il passato è presente nelle parole che usiamo, nei luoghi che conosciamo, nei paesaggi che guardiamo, nelle frontiere che attraversiamo, nei nostri simili a cui ci ispiriamo. «La storia è talmente densa di vita umana – prosegue – che, a volerla ripercorrere tutta pedissequamente (ammesso sia possibile), scriveremmo – per dirla con Jorge Luis Borges – l’equivalente di una mappa 1:1.
Bisogna vagliare le fonti a nostra disposizione, scegliere quelle che riteniamo rilevanti, “montare” prove, tracce e argomentazioni e proporre delle immagini convincenti del nostro passato. La cui ricostruzione è sempre in discussione. La memoria umana “è uno strumento meraviglioso ma fallace”, scriveva Primo Levi, e si presta a distorsioni, a usi e abusi.
La memoria pensa al futuro
L’esercizio della memoria, allora, non è un atto per dire che siamo fedeli al passato, scrive David Bidoussa in Il passato al presente, Fondazione Feltrinelli, «bensì una procedura perché quel passato parli ancora al nostro presente e abbia significato per dare una qualche ipotesi di futuro. Il centro dell’atto di memoria siamo noi: qui e ora». La memoria pensa al futuro, scrive di passato, ma parla al presente e si fonda sulle domande e sulle ansie di chi sta nel presente.
L’intero dossier, con le interviste integrali, è pubblicato sul numero di febbraio 2020 del Messaggero di sant’Antonio e sull’edizione digitale del numero, che puoi provare gratuitamente cliccando qui.