La diversità e l'accoglienza non conoscono confini

Piantare un albero è avere una speranza. Ci riporta alla nostra origine, insegnandoci come far ritorno al Padre Creatore.
19 Febbraio 2020 | di

«A carnevale ogni scherzo vale» si suol dire, anche se questa volta non ne sono più sicuro. A farmi venire il dubbio ci ha pensato il nostro papa Francesco, che qualche tempo fa, «per cambiare», ha ironizzato, ha scelto di sostituire la sua papalina bianca con un copricapo pieno di coloratissime piume. Un omaggio al carnevale di Rio? No, anche se Rio a suo modo c’entra, così come la volontà di mescolare materiali e colori per accendere i riflettori.

Al centro della scena c’era Ednamar De Oliveira Viana, leader indigena della regione Maués, Brasile, che, in occasione del Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre, insieme con la sua delegazione, ha scelto di fare tappa ai Giardini Vaticani (dove con papa Francesco hanno piantato un albero, proprio alla vigilia del Sinodo), per cominciare a sensibilizzare l’Europa sul destino dei popoli dell’Amazzonia, sempre più minacciati da incendi e deforestazioni. 

Un cantico al creato e alle sue creature è anche quello che questa popolazione sta portando al mondo, ricordandoci quanto profondo può essere il legame tra l’essere umano e la Terra, per lei madre, padre e spirito. «Piantare è avere una speranza (...) – afferma Ednamar – ci riporta alla nostra origine, riconnettendoci con l’energia divina e insegnandoci come far ritorno al Padre Creatore». Piantare un albero, quindi, non è più oggi un semplice gesto simbolico, è una presa di responsabilità in difesa del nostro patrimonio naturale e del rispetto delle diversità, qualsiasi esse siano. 

Il popolo della foresta tuttavia non ha bisogno di molti suggerimenti, sa benissimo come raccontarsi e proseguire il suo cammino. Se Ednamar è partita dalla Chiesa c’è, infatti, chi è arrivato in Università. È stato il caso di Célia Xakriabà, che lo scorso ottobre ha tenuto una lezione al Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, di fronte a un pubblico incantato di docenti, studentesse e studenti italiani e non. Un incontro nato nell’ambito della campagna «Sangue Indigeno: non una goccia in più», organizzata dall’articolazione dei popoli indigeni del Brasile (APIB), in collaborazione con organizzazioni della società civile europea.

Veder parlare da una cattedra universitaria una giovane indigena incorniciata di piume d’oro e blu (il copricapo era double face) non è una cosa che accade tutti i giorni. «La mia prima università è il territorio indigeno», ha raccontato Célia, promuovendo un’alternativa sociale pacifica e le specificità di ciascuno come un bene da custodire e salvaguardare.

Ascoltando le sue parole anche la diversità appare come intimamente connessa con la spiritualità, non perché eccezionale, ma perché anch’essa parte di un tutto che ci connette. La delegazione di leader indigeni ha toccato Italia, Germania, Svezia, Norvegia, Belgio, Paesi Bassi, Francia, Regno Unito, Svizzera, Portogallo e Spagna per informare i cittadini della propria situazione.

La diversità e l’accoglienza, insomma, non conoscono confini e la Natura lo sa bene. E perché non indossiamo anche noi un cappello nuovo? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

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Data di aggiornamento: 19 Febbraio 2020
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