Di Romano, «ladra» di sguardi
In Malesia, dove si era spinta qualche anno fa per un reportage, la chiamavano «ladra di anime». «Colpa» della credenza animista che attribuisce alla fotografia la capacità di catturare lo spirito del soggetto ritratto. «Se posso scegliere un soprannome preferisco “ladra gentildonna” – scherza Arianna Di Romano –. In fondo, io non rubo immagini per collezionarle. Il mio intento è sempre dare voce alle persone e alle loro storie, rendendo giustizia e dignità». E cosa c’è di più espressivo di due occhi che fissano l’obiettivo? La fotoreporter sarda lo sa bene. Guarda caso, dopo essersi trasferita nell’antico borgo palermitano di Gangi (poco più di 6 mila anime a 1.000 metri di altitudine), ha allestito nella nuova abitazione – «un edificio ottocentesco recuperato» – una galleria di volti. Giusto un assaggio dei migliaia immortalati negli ultimi dieci anni. Volti segnati dalla povertà, dalle rughe e dall’emarginazione. Frammenti di umanità raccolti in giro per il mondo: dai più remoti villaggi del Vietnam, del Laos e della Thailandia ai campi profughi serbi, dalla comunità rom a Carbonia (Sardegna) fino alle celle del carcere di Caltagirone, in Sicilia.
Chilometri da percorrere e culture da scoprire non sono certo un deterrente per Arianna Di Romano. «Vivo le sensazioni che provano le persone che ritraggo, mi identifico in loro – spiega la fotoreporter –. Continuamente cerco me stessa nell’altro. Di notte, poi, rivedo spesso in sogno quegli sguardi. E, lo ammetto, quando percorro la mia galleria a Gangi mi sento un po’ osservata. Ma ognuna di quelle persone appese alle pareti ha condiviso con me un pezzetto di vita e so per certo che mi vuole bene». Se è vero che, come diceva Henri Cartier Bresson, «fotografare è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore», c’è da credere che proprio l’empatia sia l’ingrediente segreto che rende gli scatti di Arianna Di Romano tanto unici e indimenticabili.
Se ne è accorto pure Vittorio Sgarbi: va al critico d’arte, infatti, il merito di aver ideato la mostra «Arianna Di Romano. Oltre lo sguardo», organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dal Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara negli spazi della Palazzina Marfisa d’Este fino al 12 giugno. Un viaggio che, attraverso sessanta intensi scatti, accompagna il visitatore in un mondo perlopiù in bianco e nero, popolato di senzatetto, ragazzi di strada, gitani, detenuti e anziani. Un mondo dove i sorrisi sono merce rara e la rassegnazione dilaga incontrollata. Ma anche nella più buia e misera delle periferie l’obiettivo di Arianna Di Romano non soccombe mai alla disperazione. E continua a cercare... un gesto, uno sguardo, una luce, un barlume di speranza da cui ripartire.
Msa. Se dovesse raccontare la sua mostra alla Palazzina Marfisa d’Este a Ferrara da quale fotografia partirebbe?
Di Romano. Partirei sicuramente da Un’antica danza, scattata a Villa Mazzone a Caltanissetta, la città d’origine di mio padre, nel 2016. Al posto di quella casa di riposo trent’anni prima c’era un hotel dove io alloggiavo spesso da bambina. Nonostante la sorpresa, quando ci tornai da adulta ritrovai un mondo sospeso un po’ decadente, ma bellissimo. Davanti all’obiettivo un’anziana, un tempo cantante di operetta, ballava con una suora e mandava baci al suo pubblico (le altre ospiti della struttura). Mi disse: «Sono stata importante una volta». Rimasi molto colpita da quell’episodio, provai tenerezza e mi immedesimai in quelle donne. Quando tornai nella casa di riposo per chiedere di esporre a Ferrara la loro foto, non le trovai più. Nella profonda tristezza della notizia della loro morte, fui felice di averle conosciute e raccontate attraverso la macchina fotografica.
Cosa significa essere una donna fotoreporter e doversi confrontare quotidianamente con culture e luoghi molto diversi, per non dire difficili e ostili?
Posso rispondere raccontando il mio ultimo viaggio in Bosnia. Quando, qualche anno fa, informai la famiglia e gli amici di voler documentare la vita nei campi rom bosniaci, mi diedero della pazza. Dissero: «Tu morirai prima di fare ritorno a casa». Ma io ero molto tranquilla e fiduciosa. Appena arrivata, fui accolta da un muro di diffidenza. Capii che, per conoscere la storia della comunità rom, dovevo prima raccontare la mia. Spiegai alle donne la sorte del mio fidanzato, morto a 31 anni, il motivo per cui non ero sposata e non avevo figli, finché – comprese le mie tragedie personali – non iniziarono a considerarmi una di loro e ad amarmi. Fu così che le donne parlarono di me agli uomini. E infine acconsentirono alla mia richiesta, seppur con una clausola: avrei dovuto evitare di soffermarmi sulle condizioni di vita all’interno del campo, sulle miserie quotidiane, raccontando solo “le storie e le anime” di chi ci abitava. Insomma, mi ci vollero quindici giorni per riuscire a far entrare la fotocamera nel campo rom. Ma poi rimasi a vivere in quella comunità per tre mesi: fu un periodo bellissimo e intenso. Quando me ne andai, mi benedissero e mi congedarono con una raccomandazione: «Attenta al mondo fuori da qui». Come a dire, «prenditi cura di te, perché d’ora in poi non potremo più farlo noi».
Oltre alla povertà e all’emarginazione, dalle sue fotografie emerge un forte interesse per la spiritualità e i luoghi sacri. Penso, ad esempio, alla foto La monaca, scattata nel tempio khmer di Angkor Wat, in Cambogia, nel 2014.
Confermo. Sono molto attratta dalla spiritualità. Per quanto credente, gli episodi drammatici della mia vita mi hanno disorientata e hanno fatto vacillare la mia fede. Tuttavia, ogni volta che mi lascio avvolgere dal silenzio di un luogo sacro o che osservo una persona pregare, in un certo senso mi sento più vicina a Dio. Forse anche per questo mi sono trattenuta in Asia sei mesi e ho speso intere giornate a osservare le monache in contemplazione. Sempre la curiosità per la vita quotidiana delle monache mi ha spinto in Romania, in Sardegna e – finalmente a casa – in Sicilia. Ognuna di queste religiose rappresenta un modello di femminilità diverso. E cosa c’è di più bello che raccontare le diversità, per poi trovarne i punti di incontro?
Non si è ancora conclusa la mostra «Arianna Di Romano. Oltre lo sguardo», a Ferrara, e già un’altra esposizione dei suoi lavori fa parlare di sé a Palermo…
Non è un caso che a ospitare la mostra «Universi silenziosi» sia, fino al 19 giugno, Palazzo Branciforte. A fine ’700, infatti, l’allora Palazzo Pietraperzia e Butera (appartenuto alla famiglia Branciforte) divenne la sede del Monte dei Pegni di Santa Rosalia. Un luogo frequentato da persone disperate che là si recavano per poter sopravvivere, disfacendosi dei propri beni di uso più o meno quotidiano. Ecco, i volti che ho fotografato e che ora – su ottantuno stampe di grande formato – riempiono le sale del Palazzo palermitano sono decisamente in linea con quelle povere persone vissute oltre duecento anni fa. Ancora una volta l’umanità dolente relegata ai margini torna protagonista. Ancora una volta la storia si ripete.
Conclusa anche la seconda mostra siciliana, che cosa la aspetta?
Due viaggi erano già confermati, ma il covid e la guerra in Ucraina li hanno fatti slittare. Il primo: lungo la linea ferroviaria transiberiana. Il secondo: a bordo di una nave cargo. Mi piacerebbe poi tornare a vivere per un periodo in Romania, al confine con la Transilvania, in una zona davvero povera che ho molto amato. Nel frattempo, covid permettendo, ho un «progetto a km zero» da realizzare: aprire al pubblico la mia galleria dei volti a Gangi. In fondo la fotografia non è altro che testimonianza e collante tra storie di vita diverse, ma anche uguali. Per questo va condivisa. Ogni scatto rappresenta il tassello di una memoria collettiva. E in questa memoria io, in quanto fotografa, ho un ruolo privilegiato. Forse anche per questo, quando incontro i «miei volti», mi fermo a parlare con loro e mi emoziono sempre…
Nei suoi viaggi che idea si è fatta dell’umanità? Tra guerre, povertà, malattie… c’è ancora spazio secondo lei per la speranza e la compassione?
Lo spero. Nutro da sempre molta fiducia nel prossimo. Se i miei occhi di fotografa riescono a scorgere la bellezza anche dove a prima vista non sembra esserci, perché non possono farlo anche gli altri? Mi piace pensare che due sguardi che si incontrano possano dar vita a qualcosa di buono. Questa speranza è il mio piccolo contributo alla causa. Oggi più che mai ognuno è chiamato a fare la propria parte.
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