Édouard Cortès: sulle strade della vita (e della fede)
Giornalista e fotoreporter, Édouard Cortès ha contratto molto presto il «virus» della marcia e del viaggio. Dopo aver percorso migliaia di chilometri sulle strade per Kabul o per Saigon, nel 2007, all’indomani del matrimonio, ha raggiunto Gerusalemme con sua moglie Mathilde, prima di partire, nel 2012, per un pellegrinaggio alla volta di Roma sempre con la moglie, ma stavolta anche con le tre figlie. Appoggiandosi a un semplice carretto trainato da un asino e dormendo in tenda. Da questa sua esperienza è nato un libro, In cammino verso Roma, appena pubblicato in Italia dalle Edizioni Messaggero Padova.
Msa. Alcuni pellegrini si interrogano sui motivi che vi hanno spinti a partire. Lei perché ha deciso di «farsi pellegrino»?
Cortès. Perché ci mettiamo a camminare? È una domanda da non fare mai a un pellegrino, poiché i motivi sono sempre un po’ segreti. È forse il cammino che affina man mano la risposta e dà delle spiegazioni a quest’iniziativa del partire in pellegrinaggio. Nel mio caso, c’è stata contemporaneamente la voglia di una scoperta, di un superamento e di una profonda aspirazione all’assoluto, come un’attrazione celeste. Non essendo un «professionista» della preghiera e della vita cristiana quotidiana, parto ogni tanto per sgranchirmi le gambe e per sgranchire anche le basi della mia fede sulle vie del pellegrinaggio. Questo mi motiva e mi fa crescere sia nella dimensione spirituale sia umanamente.
Senza questa dinamica del cammino, le mancherebbe qualcosa?
Sì. Sono quindici anni che cammino e non riesco a concepire che si possa raggiungere un luogo di pellegrinaggio senza usare i piedi. Sono andato a Torino per venerare la sacra Sindone e ci siamo andati in auto. L’arrivo così rapido è stato frustrante. Ho fatto fatica a non utilizzare i miei piedi: il camminare permette di scavare il desiderio di quel luogo da raggiungere. La marcia dà quella sensazione «magica» di realizzare l’unità di vita tra corpo, anima e intelligenza. Se così tante persone decidono oggi di raggiungere Compostela, per citare un solo esempio, è proprio perché il camminare ha questa dimensione così importante.
In quale modo lo sforzo fisico e il viaggio interiore si alimentano l’un l’altro?
Alle «schiappe» della vita spirituale, come me, a quelli insomma che faticano a pregare regolarmente, il fatto di sentire le vesciche formarsi, il sole che picchia, lo zaino che pesa, permette di ricordare che siamo esseri fatti di carne, esseri incarnati, e questa dimensione si fa sentire soprattutto davanti alla potenza insondabile della natura. La foresta, i sentieri in terra battuta, la vita che segue il ritmo del sole permettono una vera riconciliazione con questa natura. Quando si cammina, si sperimenta uno stupore continuo e forse ci si riappropria un po’ dello spirito francescano: è facile lodare il Signore quando si percorre la via Francigena o quella di Santiago, perché la natura è bella. È un ambiente favorevole, che a me permette di vivere lo spirito delle Beatitudini. Quando sei sulla strada è più facile lasciarti plasmare.
L'intervista completa nel numero di luglio-agosto del «Messaggero di sant’Antonio» e nella versione digitale della rivista.