Gerusalemme la città impossibile
Anche il lettore che si occupasse con assiduità della comprensione del Medio Oriente, e della questione palestinese e israeliana, converrà nel riconoscere l’originalità del libro di Meir Margalit. A colpire fin da subito è proprio il curriculum dell’autore: chi critica l’attuale impianto di «gestione» di Gerusalemme è un ebreo israeliano, emigrato nel 1972 dall’Argentina al seguito di un gruppo della destra sionista, combattente nella guerra dello Yom Kippur (1973). Proprio quell’esperienza (con ferimento) gli fa cambiare approccio, con l’impegno nel consiglio comunale di Gerusalemme per due mandati nel partito di sinistra Meretz (fino al 2014). Oggi dirige il Center for Advancement of Peace Initiatives, oltre a collaborare con vari organismi Onu.
Resta il punto: un ebreo israeliano che, da dentro, «spiega» la (sono parole sue) «non città» di Gerusalemme, con un focus particolare sulla zona est, occupata dagli israeliani fin dal 1967. Come un chirurgo, Margalit incide con il bisturi del suo racconto i bubboni della politica amministrativa israeliana, mostrando l’evidenza delle dinamiche oppressive, nelle scelte e nella prassi della gestione municipale.
Chi ritenesse «arido» un approccio che può apparire in alcuni passaggi «burocratico», farebbe bene a tornare con la memoria al 1989, quando la caduta del muro di Berlino fu innescata precisamente da un’«arida questione burocratica». Che a questo punto così arida e neutrale non è (per tacere del processo di Norimberga).
Ottima l’occasione per uscire da alcuni luoghi comuni. Sostiene Margalit: «Mi rifiuto di entrare nello schema binario che divide i protagonisti del conflitto secondo parametri etnico-nazionali. La questione non è tra palestinesi e israeliani, ma tra coloro che lottano per la giustizia sociale e coloro che preferiscono sostenere l’occupazione, per perseguire i propri meschini interessi». L’incedere del testo è argomentativo, poggiandosi sia sull’esperienza diretta dell’autore, sia sulla riflessione sociologica (e antropologica) più aggiornata, con frequenti (senza risultare però pedanti) citazioni. Di certo, vuole evitare accomodanti semplificazioni binarie. Così, se «è indubbio che Gerusalemme sia divisa in occupanti e occupati», tuttavia «la realtà gerosolimitana è troppo complessa per poter essere riassunta in uno schema riduzionista di buoni da una parte e cattivi dall’altra». Tant’è che nel testo non mancano, come avverte pure il saggista, «valutazioni che daranno fastidio anche alla parte palestinese».
In definitiva, il libro è decisamente consigliabile. Non è solo critica: specialmente nella seconda parte, offre anche piste per possibili soluzioni, auspicando un futuro nel quale Gerusalemme sia la capitale israeliana e al contempo la capitale palestinese, perché sì, forse è tempo di pensare a questa meravigliosa e tormentata città non più al singolare, ma al plurale (è ancora Margalit a suggerirlo).Non più Gerusalemme, ma Gerusalemmi.