24 Febbraio 2022

Gli eroi della porta accanto

Lavorare per la pace nel mondo, per la giustizia sociale, l’istruzione, la salute è la missione di tanti italiani impegnati in aree critiche del pianeta. Un’attività difficile e non priva di rischi.
Gli eroi della porta accanto
Il medico Paolo Giuseppe Franceschi, impegnato con il Cuamm all’ospedale rurale di Lui, nel Sud Sudan.

Esattamente un anno fa, nel febbraio del 2021, destò sgomento e orrore l’attacco contro un convoglio umanitario dell’Onu in Congo, durante il quale furono catturati e assassinati, con il loro autista Mustapha Milambo, l’ambasciatore italiano Luca Attanasio e il carabiniere della sua scorta Vittorio Iacovacci. L’ennesimo sacrificio di vite umane che si è aggiunto alla lunga lista dei tanti volontari, cooperanti, professionisti italiani, operatori umanitari – religiosi e laici – scomparsi, feriti, uccisi o morti nell’adempimento del loro dovere in aree critiche del pianeta, per essersi spesi nella difesa dei diritti dei più deboli, nella cura dei malati e degli affamati, nell’istruzione degli emarginati e dei poveri, e più in generale per aver contribuito a costruire il futuro di un mondo più giusto e solidale.

Viene ancora alla mente il nome di padre Paolo Dall’Oglio, rapito nel 2013 a Raqqa, in Siria, e di cui si ignora la sorte. Oppure quello di Cesare Tavella, cooperante lombardo in Bangladesh, rimasto ucciso a Dacca nel 2015. O dell’operatore umanitario Giovanni Lo Porto di Palermo, morto al confine tra Pakistan e Afghanistan mentre era tenuto in ostaggio. E, ancora, il nome del cooperante Michele Colosio, ucciso nel luglio scorso, nello stato messicano del Chiapas, e quello della volontaria vicentina Nadia De Munari assassinata in Perù. Meglio è andata a un’altra volontaria: la milanese Silvia Romano, rapita nel 2018 in Kenya, e rimasta prigioniera dei terroristi in Somalia per oltre un anno e mezzo, prima di essere liberata. E come non ricordare, in tempi di pandemia, la coraggiosa figura del medico marchigiano Carlo Urbani, scopritore e vittima della Sars in Vietnam, nel lontano 2003. Inutile nascondersi la verità: rendere il mondo un luogo migliore per noi e per gli altri, soprattutto per i più sfortunati, è un’attività complessa e difficile, e in taluni casi assai pericolosa. In queste pagine vi raccontiamo tre storie emblematiche di italiani laici impegnati in progetti umanitari in zone calde del pianeta, non solo sul piano climatico.

Haiti

Fiammetta Cappellini

Bergamasca di Treviglio, Fiammetta Cappellini è esperta di educazione. Due lauree, una in Scienze dell’educazione e l’altra in Lettere all’Università Cattolica di Milano, dal 2006 lavora ad Haiti come responsabile locale dell’Avsi, un’organizzazione no profit che realizza progetti di cooperazione allo sviluppo e aiuto umanitario in 38 Paesi del mondo. «Quella con l’Avsi è stata la mia prima vera esperienza di cooperazione, e sono rimasta sempre con loro, e sempre ad Haiti, fino ad oggi», ricorda Cappellini. In precedenza, a 18 anni, aveva lavorato con il Pime in Africa, in Costa d’Avorio, per una breve missione. Attualmente è impegnata nella capitale di Haiti, Port-au-Prince, ma si occupa anche di missioni periodiche nelle altre sedi dell’Avsi, sempre ad Haiti. «Non seguo un unico progetto. Il mio lavoro consiste nell’accompagnare e supervisionare tutti i progetti dell’Avsi in quest’isola. Noi interveniamo in tre settori: sviluppo agricolo e rurale per garantire disponibilità di cibo a favore della popolazione più vulnerabile; interventi sociali nei quartieri difficili della capitale, con un’attenzione particolare verso le donne e i giovani; diritti umani e protezione con interventi umanitari a favore delle vittime di violenze».  

Fiammetta Cappellini ha dovuto affrontare parecchi momenti difficili. «Negli ultimi tempi, nella capitale Port-au-Prince stiamo vivendo un livello di violenza altissimo a causa dei continui attacchi e scontri tra bande armate, che feriscono anche i civili – lamenta la responsabile locale dell’Avsi –. Un giorno avevamo in programma la distribuzione di voucher per le famiglie più fragili del quartiere così da permettere loro di comprare generi alimentari. Ma a causa dei gravi scontri tra bande, abbiamo temuto di non poterlo fare per paura che qualcuno rimanesse ferito, sia tra i membri del nostro staff che tra le famiglie. Alla fine, una delegazione del quartiere è venuta nel nostro ufficio chiedendoci di non rinunciare alla distribuzione perché le persone ne avevano davvero bisogno, e dicendoci che avremmo affrontato insieme la situazione, fianco a fianco. Quel giorno siamo riusciti ad aiutare più di mille persone. Abbiamo realizzato la distribuzione insieme alla comunità, e nessuno si è fatto male».

Ma è il terremoto di magnitudo 7,2 della scala Richter, che ha devastato la parte sud dell’isola nell’agosto scorso, ad aver lasciato un segno nella cooperante bergamasca. «Ero in missione insieme ad altri colleghi per accertarmi della situazione e dei danni causati – racconta Cappellini –. Durante la visita mi si è avvicinata un’anziana signora e mi ha preso la mano. Aveva un’età indecifrabile, ma a guardarla in volto si capiva che aveva già vissuto molti anni, abbastanza per vedere tutta la miseria del mondo che ad Haiti è sotto gli occhi di tutti. A causa della tempesta tropicale che stava investendo il Paese, da ore la donna era sotto la pioggia, appena riparata da una tenda di fortuna, fatta di plastica e stracci, perché la sua casa era crollata dopo il terremoto. Questa anziana aveva già perso la casa con il terremoto del 2010, e poi con l’uragano “Matthew” del 2016. Eppure nel suo dialetto locale mi disse: “Ricostruirò la mia casa anche questa volta perché questa è la mia terra. Da sempre vivo in questo quartiere, e anche se ora ho i piedi nel fango, sotto questo fango ci sono le mie radici”. Ecco, questa forza, il suo volto, la dignità di questa signora mi hanno commossa. Per e con lei, siamo ogni giorno al lavoro ad Haiti».

In questi quindici anni è molto cambiato il modo in cui Cappellini vede il mondo e il suo lavoro. Lo ammette lei stessa. Ancora una volta è un terremoto ad aver segnato il suo vissuto personale. «Quello del 2010 è stato un’esperienza tragica. Quando ho iniziato questo lavoro avevo un’idea romantica della cooperazione allo sviluppo: quella di aiutare i Paesi più svantaggiati. Oggi, invece, penso che la cooperazione allo sviluppo non significhi calare gli aiuti dall’alto, ma lavorare con e insieme alla gente che si trova in queste situazioni di bisogno. Il terremoto del 2010 mi ha insegnato che occorre sostenere quello che già c’è in questi Paesi».

Nonostante l’entusiasmo e la determinazione, Cappellini ha avuto modo di sperimentare la paura che, come dice lei, è un «campanello d’allarme». «Oggi, se sei un operatore umanitario ad Haiti, devi avere coscienza e valutare bene i rischi e la situazione. Questo è un Paese difficile per noi operatori umanitari internazionali, ma sicuramente lo è ancora di più per il nostro staff locale. Perciò tutti noi riceviamo una formazione approfondita per poter prevenire situazioni di pericolo. Non dobbiamo esporre noi stessi, i beneficiari e il nostro staff. L’Avsi ha protocolli di sicurezza molto rigidi da seguire. Ambasciate, consolati, ecc. sono i nostri punti di riferimento in caso di eventi imprevedibili come terremoti o colpi di stato. Invece la presenza locale di chiese e parrocchie è la base per questo lavoro di prevenzione in fatto di sicurezza. È molto importante farsi accettare dalla comunità locale dove si opera. Se la comunità ci conosce e ci stima, si lavora bene insieme. Resto sempre commossa quando vado a Cité Soleil, un quartiere di Port-au-Prince: il primo luogo in cui ho iniziato a lavorare ad Haiti. Le persone mi salutano, mi riconoscono. Questi sono rapporti importanti che rimangono nel tempo».

Sud Sudan

Paolo Giuseppe Franceschi

Milanese, 63 anni, Paolo Giuseppe Franceschi è un medico anestesista. Dopo il liceo classico si è iscritto alla facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Pavia. Negli anni precedenti aveva ascoltato le testimonianze di missionari come Madre Teresa di Calcutta e Marcello Candia, e aveva letto molti articoli di Giorgio Torelli. Tutto questo «pepe nello stomaco», come lo definisce lui, lo ha spinto a partire per il servizio civile all’estero insieme a Marina, conosciuta durante gli studi, che nutriva la stessa passione per l’Africa. Era il 1985. Nel corso della loro vita insieme hanno avuto quattro figli, e ora sono già nonni.«Con la nostra bimba di 4 mesi, partimmo per un ospedale rurale della Tanzania – rammenta Franceschi –. Per quella esperienza scegliemmo il Cuamm di Padova, oggi Medici con l’Africa Cuamm». La ong-onlus italiana è una delle più grandi in ambito sanitario a livello internazionale. «L’esperienza fu interessante, anche se non sempre facile – prosegue Franceschi –. Io mi occupavo di medicina interna e di anestesiologia, mentre Marina si dedicava soprattutto all’ostetricia e alle malattie infettive. Complessivamente rimanemmo lì per 27 mesi, alla fine dei quali, per problemi familiari, non potemmo prolungare la nostra permanenza, e così tornammo in Italia».

Due anni fa, a Franceschi si è ripresentata l’occasione di ripartire per l’Africa. «Attualmente lavoro all’ospedale rurale di Lui, nel Sud Sudan, sempre con il Cuamm. Mia moglie Marina ha preferito rimanere a Milano per stare vicina a nostra figlia Jessica. Io resterò nel Sud Sudan fino al mese di agosto di quest’anno. Seguo il reparto di medicina interna. Ma dobbiamo fare i conti anche con il problema dell’epidemia di Covid che si sta diffondendo in questa regione sebbene qui siano molto rare le forme gravi che ho visto in Italia». Medici con l’Africa Cuamm, in questi Paesi così problematici cerca di migliorare, con pazienza e costanza, la capacità professionale degli operatori sanitari locali. «Il fine ultimo – ribadisce il medico milanese – è quello di lasciare, un giorno, nelle loro mani queste strutture sanitarie». Le relazioni dei medici con i pazienti affetti da Covid, e con i loro parenti, non sono sempre agevoli. «Non è facile spiegare alla popolazione locale cos’è questa pandemia, come si trasmette il Coronavirus e perché può essere anche letale – ammette Franceschi –. Sembra che i sudsudanesi non rispettino molto le regole di prevenzione. Perciò abbiamo cercato la collaborazione delle istituzioni locali per fare in modo che i nostri messaggi non apparissero solo un qualcosa di “straniero”, ma fossero confermati e convalidati anche dai rappresentanti del governo».

Per quanto riguarda la sicurezza, il medico milanese non nota particolari criticità: «La zona in cui sto lavorando è attualmente tranquilla, anche se la situazione generale del Sud Sudan è caratterizzata dalla fragilità degli equilibri politici e sociali». La vita a Lui scorre senza che si registrino particolari accadimenti. Tuttavia talora avviene qualche piccolo episodio che è difficile dimenticare, come quello accaduto qualche mese fa. «Si è presentato a Lui il padre di una bimba di circa 9 anni, affetta da una malattia cardiaca che la affaticava molto – racconta Franceschi –. Ebbene, per venire dal suo villaggio fino al nostro ospedale, quel padre, probabilmente analfabeta, aveva camminato per tre giorni, portando la figlia sulle spalle per non farle fare una fatica che per lei sarebbe stata eccessiva. Devo dire che mi sono emozionato parecchio quando lui me lo ha raccontato. Il suo è stato un esempio ammirevole».

Certamente avere buone relazioni con gli abitanti del luogo, il personale dell’ospedale e anche con i rappresentanti delle istituzioni, aiuta quando si è in difficoltà nel gestire un problema di relazioni che ha implicazioni sociali e politiche in senso lato. Del resto, è nello stile del Cuamm cercare di fare in modo che i rapporti tra i «locali» e gli «stranieri» siano sempre caratterizzati da cordialità e fiducia reciproca. «Io ho buoni rapporti con tutti, ma penso che ci sia come un muro tra noi. Ci vogliono anni perché possa nascere un rapporto che vada al di là della buona collegialità. Ho infatti l’impressione – ma può darsi che io abbia torto – che noi per loro siamo stranieri, magari volonterosi e gentili, ma pur sempre estranei alla loro cultura e alle loro tradizioni. Penso che non entrerebbero mai in confidenza con noi, nemmeno dopo anni e anni di lavoro. Forse per i missionari e le missionarie consacrate il discorso è diverso, vuoi perché con loro si parla spesso di argomenti che toccano la famiglia o il proprio intimo, vuoi perché loro restano in uno stesso luogo per molti anni di seguito. Ciò non toglie che l’Africa mi abbia dato e continui a darmi tanto. E, almeno per molti cooperanti e missionari che vi hanno passato anche solo qualche anno della loro vita, il “mal d’Africa” esiste. È una malattia cronica dalla quale non si può guarire».

Iraq

Marco Loiodice

Pugliese di nascita, ma lombardo d’adozione, Marco Loiodice è attualmente capo missione in Iraq di Coopi-Cooperazione internazionale: un’organizzazione umanitaria che da più di 55 anni è impegnata a lottare contro ogni forma di povertà, e ad accompagnare le popolazioni colpite da guerre, crisi socio-economiche o calamità naturali verso la ripresa e lo sviluppo. Loiodice è attivo in questo ambito dal 2012. Per due anni è stato in Brasile a seguire progetti di educazione nella favela «Rocinha» di Rio de Janeiro. Poi in Sierra Leone nel 2014-2015, nel contesto dell’azione umanitaria contro l’epidemia di Ebola, quando ha lavorato anche a contatto con pazienti ammalati. «In quel periodo ho cominciato con Coopi, con cui poi ho proseguito in Nigeria come program manager, e in Medio Oriente come responsabile d’area. Successivamente mi sono occupato di Libia e Tunisia, per poi tornare in Iraq. Tuttavia, vengo dal settore privato. Sono laureato in ingegneria elettronica. Prima del 2012 ero consulente informatico».

In Iraq, Coopi ha un ufficio di rappresentanza a Baghdad, e uno di coordinamento a Erbil, capoluogo della regione del Kurdistan iracheno, a nord. «Lavoriamo in varie località dell’Iraq: nelle regioni di Salah Al-Din, Anbaar e Ninawa, tutte duramente colpite, negli ultimi anni, dal conflitto armato con l’Isis – racconta Loiodice –. Qui in Iraq, Coopi lavora nel campo dell’educazione in emergenza, del livelihood ovvero della formazione professionale e della promozione dell’occupazione, della generazione autonoma del reddito; e del wash, acronimo che racchiude gli interventi inerenti la disponibilità di acqua pulita e le misure di sanità e igiene». Ogni giorno ci sono momenti difficili. Questo vale soprattutto in contesti di emergenza. «Per esempio dobbiamo assicurarci quotidianamente che il nostro personale e quello locale lavorino in condizioni di sicurezza. Raggiungiamo villaggi remoti in un contesto estremamente variabile. Per farlo, dobbiamo interagire a stretto contatto con le comunità locali. I leader di queste comunità sono molto importanti: ci consentono di accedere alla conoscenza della popolazione e delle sue reali necessità. Ma, a volte, si trovano in conflitto di interessi. Di recente ci è capitato che le attività di distribuzione di materiali di supporto all’igiene, venissero interrotte proprio dal leader di una comunità. Siamo in Medio Oriente. Niente che non si possa risolvere parlando, cercando reciproca comprensione, soprattutto grazie al nostro personale locale, oltre che ai metodi e agli strumenti di lavoro di cui Coopi è dotata».

E le soddisfazioni non mancano di ripagare le criticità da affrontare. «Ho visitato le scuole che abbiamo ristrutturato e che seguiamo. È bello vedere che i bambini le frequentano pure d’estate, anche in tempi segnati dalla pandemia di Covid che qui è tutt’altro che diminuita – sottolinea l’ingegnere pugliese –. Perché le scuole sono anche luoghi di protezione, sono luoghi sicuri per i bambini». Loiodice ha sempre creduto nella cooperazione internazionale, ma «per farlo in modo professionale, bisogna approfondire il contesto in cui si lavora per uscire dai pregiudizi. Ad esempio: come si spiega che l’Iraq, una delle terre più martoriate da vari conflitti armati, sia popolata da gente che muove tutto sulla base delle relazioni e del dialogo», contrariamente ai pregiudizi e alle false informazioni su di loro?

Quanto ai rischi del mestiere, Loiodice non ha dubbi: «È fondamentale evitare di doversela cavare da soli». Le nostre rappresentanze diplomatiche restano un punto di riferimento. «Ma tutte le realtà che operano nel Paese – ong internazionali, ong locali, istituzioni, leader e comunità religiose e non, agenzie dell’Onu, l’Organizzazione delle nazioni unite – contribuiscono a creare una rete che è il materasso sul quale atterrare in caso di cadute. L’asse principale è costituito dal personale locale per poter interagire con le comunità. La mediazione è fondamentale. Noi, come organizzazione, siamo anche garanti del rispetto di alcuni principi quali il coinvolgimento delle donne oppure l’importanza della scuola per i bambini, a discapito del lavoro minorile. L’interazione non è sempre facile – conclude Loiodice –, ma quando funziona si apre anche ad amicizie durature».


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Data di aggiornamento: 24 Febbraio 2022
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