Guardando con attenzione il dolore
Sant’Antonio deve la propria popolarità, in vita e in Gloria, al suo essere accompagnatore attento delle svariate situazioni umane di precarietà, un contemplativo in presa diretta con la vita.
Mi restano impressi certi quadri ex voto, molto naïf, in un santuario antoniano del mio paese, nei quali il Santo interviene potentemente in un momento critico, malattia o altre situazioni disperate, come fosse «il santo di guardia» in permanenza, pronto a soccorrere al volo, così come un adulto segue con trepidazione i passetti di un bimbo.
Il suo intervento grazioso sembra addirittura prevenire la richiesta di aiuto. Al punto che ne scaturisce una certezza, insieme alla debita riconoscenza a Dio, riassunta nella frase: «Qui c’è stato sant’Antonio». E anche noi frati sappiamo per esperienza personale che è veramente così.
Tuttavia, in questa primavera 2020, ogni martedì sera, i frati della Basilica accompagnano la grande statua di sant’Antonio fin sulla piazza, perché guardi ancora più da vicino la città che egli ama e il mondo intero: è una sorta di accorato «strattone» al Santo, perché intervenga in questo grave momento – anche se siamo sicuri che lui già lo stia facendo, soprattutto mediante la consolazione dei cuori – e non ci perda di vista un istante, testimone com’è che «Gesù Cristo, con gli occhi della sua misericordia, guardò fissamente il genere umano malato». E che il mondo intero si avveda di essere oggi «malato» è un’evidenza da riconoscere per una conversione dei pensieri e dei propositi globali.
Papa Francesco ha chiesto ai cattolici di essere parte attiva alla giornata di preghiera e di digiuno del 14 maggio, celebrata in sinergia con tutte le religioni, perché il mondo sia liberato dal coronavirus. «Siamo tutti sulla stessa barca» ci aveva ricordato Francesco riproponendoci quello «Spirito di Assisi», che va oltre le fedi e le culture, e che ci è caro perché è condizione di continuità di vita per la Creazione.
È necessario, però, un nuovo cammino di consapevolezza: il famigerato covid-19 non farà più vittime di quante ne abbiano fatte in questi anni recenti gli aborti, la fame e le sue conseguenze, la devastazione delle foreste, i bombardamenti sui civili innocenti in Siria e in tante altre parti del mondo. Manaus, cuore dei popoli dell’Amazzonia, aggiunge in questi giorni altri morti ai tanti che l’asservimento disumano dei più poveri già aveva sulla coscienza.
Cristo «guarda fissamente questo mondo malato», ne è profondamente coinvolto, soffre per l’uomo, non sta solamente prendendo atto con regale distacco dei guai umani, preparando castighi, come alcuni «profetizzano» e quasi auspicano. Sant’Antonio direbbe che troppi innocenti hanno fin qui sofferto, perché altri ancora?
Cristo guardò fissamente, fece propria la miseria umana, non se ne vergognò. Antonio ci mette davanti la «teopatia», il dolore di Dio il quale non pretende di essere obbedito più di quanto lui stesso sempre obbedisca, d’istinto, al bisogno umano di misericordia e di perdono. Ma perché è così difficile «guarire» se stessi e portare guarigione nella vita di chi vediamo soffrire, spesso anche per propria responsabilità?
Fissare è importante, ma non basta: «Cristo si avvicinò a noi, prese su di sé la nostra infermità, salì sulla croce…». Senza questo avvicinamento, privo dei pregiudizi e dei «distinguo» che ben conosciamo, la malattia propria e altrui resta maledetta e definitiva.
Me lo dice la condivisione con Giovanni che ha sperperato tutto nelle droghe e ora, in tempi di moltiplicata povertà, non avrà risorse per vivere; me lo dicono Paola e il suo bambino, ora che una grave patologia li sta separando dopo tanto impegno per salvarsi insieme; me lo dice Matteo che continua a sentirsi incapace di reinserimento in una società esigente e a tratti cattiva; e me lo dice Alfredo che… non capisce proprio niente!
La teopatia, lo stare male di Dio per il nostro male, ci indica nuove strade, perche davvero si realizzi il motto di questi giorni, «Andrà tutto bene», e non si trasformi in una frase ingenua. Ma se Cristo guarda fissamente il nostro dolore, perché non lo risolve?
In questi giorni di chiese aperte ma senza celebrazioni, abbiamo percepito che Dio non cammina mai lontano da noi, forse è stato più attento alle sale di rianimazione e agli sforzi dei sanitari, di certo è andato a riempire drammatici vuoti nelle famiglie provate dall’epidemia, sicuramente non ha sospeso la sua azione in attesa della cosiddetta fase 3 di quasi normalità.
No, Cristo sta vivendo la sua Passione permanente e la «normalità» per lui sta nell’esporsi alla Croce per noi «malati» di coronavirus e di tanto altro. In quel «per» sta tutta felicità di Dio e, forse, anche la nostra.