Figli dello stesso Padre

Don Roberto Musa è il cappellano del carcere di Cremona. Durante l’emergenza Covid-19 ha ascoltato rabbia, paura e voglia di futuro dei detenuti. Facendo i conti, già in mezzo a tanto dolore, con la perdita del padre.
20 Maggio 2020 | di

Milano, a meno di 30 chilometri da Codogno, primo focolaio di Covid-19 in Italia. Migliaia i contagiati, centinaia i morti, soprattutto tra gli anziani, anche in questo angolo di terra dove il virus è passato come una falce, senza pietà alcuna. 

Inaugurato nel 1992, Ca’ del Ferro, il carcere cittadino, ha visto, nel 2013, l’aggiunta di un padiglione detentivo più moderno dal punto di vista ingegneristico-architettonico. Da queste mura si vede la città ma, di più, la si sente, avvertendone quasi il respiro. Il carcere si trova proprio dietro l’ospedale. Per settimane i 484 detenuti hanno potuto vedere, e ancor più sentire, l’andirivieni di autoambulanze che, a sirene spiegate, trasportavano i malati più gravi.

Anche a Cremona si scatena la protesta contro le misure di restrizione introdotte, agli inizi di marzo, per circoscrivere il contagio. Sono momenti di grande tensione. Sul posto arriva, tra gli altri, don Roberto Musa. È il cappellano del carcere insieme a don Graziano Ghisolfi. Quarantotto anni, nato e cresciuto a Cremona, don Roberto inizia a prestare il suo servizio tra i detenuti nel 2010. In carcere si reca tutte le mattine, neanche il Covid-19 lo ha fermato. 

Msa. Don Roberto, chi può entrare in un carcere?

Musa. Dall’inizio è stato vietato l’accesso a qualsiasi persona proveniente dall’esterno. Un cordone sanitario che, almeno qui a Cremona, è scattato da subito, evitando il peggio.

Lei è tra i pochi, se non l’unico, che può accedere.

Noi cappellani, facendo parte dell’amministrazione penitenziaria, siamo in effetti gli unici che possono entrare, ma chiaramente sono sospese le attività di catechesi e le celebrazioni. Non accedono, poi, i volontari e gli insegnanti, ma il personale ha continuato fedelmente il suo lavoro.

Anche il cappellano del carcere è sottoposto a controlli?

Tutte le mattine effettuo un pre-triage nella tenda sanitaria montata all’esterno. Viene misurata la temperatura corporea e accertato che indossi tutti i dispositivi di protezione previsti.

L’emergenza sanitaria ha finito per isolare, più di prima, chi isolato lo era già.

Purtroppo è un momento difficile che ha reso necessario vietare qualsiasi contatto con l’esterno per evitare lo scoppio di un focolaio. Una probabilità non così remota entro realtà promiscue come il carcere o le case di riposo. 

Cosa è stato vietato?

Prima di tutto i colloqui con i parenti. E poi, tutte le attività scolastiche e culturali.

Divieti che hanno scatenato la protesta anche a Cremona.

Era l’8 marzo, una domenica tranquilla. Avevo finito le mie attività a San Daniele Po, Isola Pescaroli e Sommo con Porto, le tre comunità di cui sono parroco, quando, nel tardo pomeriggio, mi è arrivata una telefonata: alcuni detenuti avevano iniziato a distruggere tutto in segno di protesta contro le restrizioni. In pochi minuti ho raggiunto il carcere. Ingenti i danni provocati, ma per fortuna nessun morto o ferito.

Cosa ha evitato il peggio?

Di sicuro la tempestività di chi ha preso in mano la situazione con determinazione e pazienza, vale a dire il direttore del carcere, il comandante della polizia penitenziaria e gli agenti. Appena prima della rivolta erano già state messe in atto alcune disposizioni per alleviare l’isolamento (come le telefonate con la famiglia e le videochiamate). Subito dopo sono state potenziate, aumentando le postazioni di videochiamata, riaprendo anche il servizio mail che era stato interrotto nei primi giorni dell’emergenza per problemi tecnici.

Qual è stato il suo ruolo?

Ho cercato la strada del dialogo: ascoltando le ragioni di chi si è visto privare delle libertà concesse, cercando di far capire il perché si è arrivati a certe misure. Come capita, poi, per fatti simili, c’è sempre qualcuno che tenta di insinuare motivazioni che c’entrano poco o nulla: da queste abbiamo subito sgombrato il campo. In ogni caso, tutto quello che si fa in carcere per i detenuti, lo si fa grazie alla collaborazione e alla condivisione di ideali e passione. È sempre un lavoro di squadra.

«Hanno blindato tutto, hanno tolto le speranze a chi le aveva e ora la situazione è destinata a esplodere», ha detto un detenuto. Quali emozioni ha raccolto in queste settimane?

All’inizio tanta rabbia per il fatto di non poter più godere di quelle libertà con cui erano abituati a scandire le giornate, dal colloquio con i famigliari al corso di italiano (gli stranieri sono oltre il 60 per cento), al laboratorio di teatro o all’attività di orticoltura. Poi la paura: per il contagio, la malattia, il futuro.

Un momento decisivo?

Oltre all’intervento di direttore e comandante, una grande mano l’ha data il professor Angelo Pan direttore di Malattie infettive all’Asst di Cremona. In piena emergenza ha lasciato il suo reparto ed è venuto in carcere. Ha voluto spiegare, in maniera chiara, come ci si contagia, in che modo ci si protegge e si fa prevenzione. Alla fine i detenuti lo hanno ringraziato, applaudendolo a lungo.

Come vivono l’emergenza?

Nella speranza che tutto finisca. Si sono, poi, autotassati raccogliendo 1.300 euro per l’Ospedale Maggiore, un fronte caldo con centinaia di contagi. Dopo l’emergenza iniziale, i servizi sono stati ripristinati. Anche gli insegnanti hanno ripreso le lezioni online.

Cremona è tra le province più colpite. Una tragedia che l’ha toccata da vicino.

In questi mesi sono venuti a mancare anche molti parrocchiani. Purtroppo, per nessuno di loro c’è stato il tempo di una carezza, un saluto, un segno di croce. Il 17 marzo ho perso mio padre, anche lui risultato positivo. In mezzo a tanto dolore, ho avuto una piccola fortuna: con mia sorella abbiamo potuto vederlo, seppure da lontano e per un attimo, poco prima della morte avvenuta in casa di riposo.

Ci vorrà tempo per curare le ferite. Che cosa rimane, intanto?

Quasi tutti qui abbiamo avuto lutti, malati gravi, chi ce l’ha fatta e chi no. Eppure, nella sofferenza profonda, nessuno si è fermato. Lo dico con orgoglio perché, anche nel momento del lutto e della preoccupazione, abbiamo continuato a fare tutto ciò che si poteva. Tutti, senza distinzione: da noi cappellani agli agenti, al direttore. Questa fedeltà, insieme al fatto di mettersi totalmente a disposizione, sono stati attimi di bellezza nei giorni brutti che non sono ancora del tutto passati. Rimane, allora, il coraggio di non essersi mai arresi, nonostante il dolore. 

Il Papa, anche nella Via Crucis di aprile, ha rivolto il proprio pensiero ai detenuti. Le carceri, ha detto, abbiano sempre una finestra e un orizzonte. Nessuno può cambiare la propria vita se non vede un orizzonte.

È quello che, ogni giorno, come cappellani cerchiamo di fare. Tra i nostri detenuti ci sono anziani preoccupati per la propria salute, per quella dei famigliari e, soprattutto, dei nipoti. E ci sono giovani, ognuno con una storia di disagio e di sofferenza alle spalle. Ma proprio come accade per qualsiasi ragazzo di questa età, sia egli dentro o fuori le mura di un carcere, i pensieri, i desideri, le speranze sono ostinatamente proiettati al futuro. I giovani che ascolto hanno voglia di cambiare per poter cambiare il mondo, di fare progetti e mettersi in gioco. La parola d’ordine è «costruire». Una tessitura lenta, paziente eppure entusiasta e fiduciosa. Come chi, dal proprio balcone guarda fuori e vede, finalmente, l’orizzonte. 

L'intervista integrale è pubblicata sul Messaggero di sant'Antonio di maggio 2020 e nella versione digitale della rivista. Provala subito!

Data di aggiornamento: 20 Maggio 2020
Lascia un commento che verrà pubblicato