De La Tour, pittore della luce
Raccontare il cosiddetto «pittore della luce» in uno dei periodi più bui degli ultimi tempi è già di per sé un paradosso. Farlo poi chiusi in casa, senza poter apprezzare le sue opere dal vivo, risulta ancora più frustrante. Eppure, questa è la situazione in cui ci troviamo a scrivere della mostra «Georges de La Tour. L’Europa della luce», a Milano fino al 7 giugno. Mentre scorriamo al pc le immagini delle sale di Palazzo Reale fornite dall’ufficio stampa, il capoluogo lombardo dorme un sonno profondo reso necessario dall’emergenza Coronavirus. Congelata, la città è in attesa di qualche buona notizia. E non è la sola. Anche le opere di La Tour aspettano. Che la quarantena finisca, che i turisti tornino ad ammirarle, che la luce prevalga sull’oscurità. Aspetta la Maddalena penitente (1635-’40) in compagnia di un teschio e una candela. Aspetta il San Filippo (1614-’23) a mani giunte con una croce sulla spalla. Aspettano i giocatori di dadi, i musici e i mendicanti. Raramente nella storia dell’arte l’attesa è stata così ben rappresentata. Pochi pittori, nell’arco dei secoli, sono riusciti a paralizzare la scena e a diluirla in un tempo eterno. Georges de La Tour rientra di diritto in questa minoranza. Perciò, la prima mostra in Italia a lui dedicata è un’esperienza che – anche se virtualmente – merita di essere vissuta.
Avete presente La Sirenetta di Walt Disney? Per capire la fama che oggi accompagna le opere di La Tour vi basterà ripensare alla scena in cui la protagonista del cartoon sogna la vita terrestre cantando davanti a una Maddalena penitente (opera del nostro) dispersa nel fondo del mare. Ma non è stato sempre così. In realtà, per ben due secoli dopo la sua morte, il maestro lorenese (Vic-sur-Seille 1593 – Luneville 1652) cadde nell’oblio. Va allo studioso tedesco Herman Voss il merito di averlo riscoperto nel 1915, a partire da tre dipinti osservati durante un viaggio in Francia. Uno di questi – La negazione di Pietro, 1650 – oggi è esposto a Palazzo Reale assieme ad altre quattordici opere (più una attribuita) di Georges de La Tour, provenienti da ventotto musei e tre continenti. Un numero di tutto rispetto, visto che i dipinti del maestro giunti fino a noi non superano la quarantina e che nessuno di essi risiede stabilmente in Italia.
Ancora più unica vi sembrerà, allora, questa esposizione che accosta ai capolavori di La Tour anche una ventina di opere firmate dai colleghi Gerrit van Honthorst, Paulus Bor, Trophime Bigot, Frans Hals, Adam de Coster e Carlo Saraceni. Se è vero che l’eccellenza si misura attraverso il confronto, la scelta dei curatori Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon è un passo avanti verso la comprensione di uno degli artisti più famosi e amati di sempre.
Dal ducato alla corte
Nulla attrae quanto l’ignoto. Lo sanno bene gli storici dell’arte che ancora oggi si arrovellano sulle poche notizie certe relative a Georges de La Tour. Di lui si sa che veniva da una famiglia di artigiani e che sposò una nobile lorenese da cui ebbe dieci figli. Appassionato di cani (possedeva un gran numero di randagi), il maestro riscosse fin da giovane un notevole successo. Prima presso il duca Enrico II di Lorena, che gli riconobbe uno status speciale e lo esentò dal pagamento delle imposte, poi presso la corte francese, dove, nel 1639, divenne pittore ordinario di re Luigi XIII. Avvolti nel mistero restano la sua formazione artistica e i suoi rapporti con i caravaggeschi italiani. Nonostante la predilezione per i soggetti popolari, lo stile realistico e il sapiente uso dei chiaroscuri, infatti, non esiste a oggi alcuna prova che il pittore francese abbia visitato l’Italia e conosciuto le opere del grande Michelangelo Merisi.
Ma torniamo alla luce, il nodo essenziale attorno a cui La Tour sviluppa tutta la sua produzione. Dalle scene diurne, ricche di dettagli e personaggi, il maestro procede per sottrazione verso una pittura sempre più essenziale e meditativa, una pittura capace di rendere visibile l’invisibile. Ecco dunque La rissa tra musici mendicanti (1625-’30), quadro giovanile che affronta il tema della lotta tra poveri con ironia. Mendicus mendico invidet («il mendicante invidia il mendicante») dice un proverbio popolare. Basti vedere il volto contratto del finto cieco smascherato dal suonatore di bombarda, che gli ha appena strizzato un limone negli occhi. Completano la scena lo sguardo pietrificato della donna sullo sfondo e il ghigno degli altri due suonatori simili a caricature.
Dal profano al sacro il passo è breve. Nel 1625 La Tour realizza anche una serie di busti di apostoli per la cattedrale di Albi. Gli unici due superstiti originali – San Giacomo Minore e San Giuda Taddeo – ora sono appesi in mostra a Milano e testimoniano una religiosità popolare fatta di persone reali e ambienti quotidiani. In questo senso va letta anche la Maddalena penitente del 1635, ritratta in un’umile stanza, appoggiata al tavolo, mentre osserva il riflesso del teschio allo specchio. Non c’è traccia di sensualità nella peccatrice redenta, che esorta invece alla contemplazione, innalzandosi quasi a memento mori essa stessa.
Verso la sintesi
Il nostro viaggio virtuale prosegue al cospetto di tre persone qualunque, due vecchi contadini e un Suonatore di ghironda con cane (1622-’25), la più grande tela di La Tour a noi pervenuta. Ancora una volta il maestro saccheggia la tradizione popolare della Lorena, poi riprende il Nuovo Testamento e confonde i piani. In La negazione di Pietro (1650), il pittore fonde l’episodio evangelico con una partita a dadi tra guardie che sembra quasi preannunciare la spartizione delle vesti di Cristo. La luce cala in scena, e i colori si fanno sempre più caldi e uniformi. Il rosso, in tutta la sua gamma, invade le ultime opere di La Tour. Irradiato da una candela, una lampada o da una fiaccola. Come quella sorretta da Irene nel San Sebastiano trafitto del 1640. Si racconta che l’opera, donata dal maestro a Luigi XIII, piacque così tanto al re da venire appesa da sola nella sua camera da letto.
Intimità e dramma si mescolano nelle opere di La Tour come sangue e carne. La fede, per il pittore, è qualcosa di mistico, ma anche di concreto. Basti ammirare il Giobbe deriso dalla moglie del 1650, o l’Educazione della Vergine del 1650, in cui una giovane Maria si appresta a imparare l’arte della tessitura e la lettura delle Sacre Scritture. C’è un quadro, però, che più di ogni altro segna uno spartiacque nella produzione di La Tour: è il San Giovanni Battista nel deserto conservato al Musée départemental di Vic-sur-Seille e affisso ora nell’ultima sala della mostra a Palazzo Reale. Forse mai come in questa tela il pittore si spinge – per dirla con le parole dello storico dell’arte Jean Pierre Cuzin – fino ai «bordi del nulla». Per raffigurare il Battista, che trascorse un lungo periodo di eremitaggio nel deserto, La Tour elimina tutto ciò che è superfluo. Il buio ormai è suo alleato e, in esso – dosando toni e chiaroscuri –, il maestro dà spazio alla meditazione e alla ricerca della fede. Aveva proprio ragione André Malraux: «Non è l’oscurità che La Tour dipinge, è la notte. La notte stesa sulla terra, la forma secolare del mistero pacificato (...) – precisa lo scrittore in Les voix du silence, nel 1951 –. Nessun pittore, nemmeno Rembrandt, suggerisce questo vasto e misterioso silenzio. La Tour è il solo interprete della parte serena delle tenebre».
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!