Henri Cartier-Bresson e l’Italia
Inimitabile maestro della fotografia, uno dei più geniali di tutti i tempi, Henri Cartier-Bresson (1908-2004) aveva un legame privilegiato con l’Italia. A sondare in profondità questo rapporto sono 200 foto, riviste, lettere, giornali e documenti, esposti fino al 26 gennaio a Palazzo Roverella, a Rovigo, nella mostra monografica dal titolo: Henri Cartier-Bresson e l’Italia, curata da Clément Chéroux e Walter Guadagnini che rende omaggio all’«occhio del secolo», appellativo con cui fu definito il fotografo francese.
Il legame di Cartier-Bresson con il nostro Paese, che la mostra ripercorre a tappe cronologiche, ebbe inizio negli anni Trenta del XX secolo e durò fino agli anni Settanta quando egli abbandonò la fotografia per ritornare alla pittura.
Cartier-Bresson arrivò in Italia, per la prima volta, con l’amico poeta e scrittore André Pieyre de Mandiargues, e con la sua compagna, la pittrice Leonor Fini. Il primo impatto con il nostro Paese fu davvero esaltante. È lo stesso sentimento che si prova vedendo i suoi scatti di allora, peraltro tra i più famosi.
Un altro viaggio importante fu quello che Cartier-Bresson compì all’inizio degli anni Cinquanta, quando visitò l’Abruzzo e la Lucania, dove si incontravano e si scontravano memorie e tradizioni di un mondo antico, dominato ancora dall’isolamento e dalla povertà, che l’Italia del boom economico spingeva in qualche modo a emanciparsi. E, dunque, le sue fotografie ci restituiscono, come una capsula del tempo, una società e un mondo che non esistono più, pur essendo ancora capaci di suscitare suggestioni e riflessioni. A giovarsi dell’arte del fotografo francese è, in particolare, il pittoresco paese di Scanno, vicino a L’Aquila, abbarbicato a uno sperone di roccia.
La fama di Cartier-Bresson si diffuse rapidamente. Collaborò con giornali e riviste illustrate, come «Holiday» e «Harper’s Bazaar», e grazie a esse ebbe modo di ritornare ancora in Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, e di raccontare con i suoi scatti Roma, Venezia, Napoli, Ischia, la Sardegna. Il suo obiettivo si concentrò su usi, costumi e abitanti di un Paese ancora genuino, popolare, lontano dagli stereotipi, ma nemmeno piegato al dominante modello americano in un continente, quello europeo, che aveva fretta di dimenticare gli orrori e le distruzioni della Seconda guerra mondiale.
La città di Matera, in Basilicata, e l’Italia del nord tornano con prepotenza anche all’inizio degli anni Settanta nelle foto di un ormai maturo Henri Cartier-Bresson a cui non poteva sfuggire come, nel volgere di vent’anni, il clima fosse radicalmente cambiato; come sguardi, tradizioni e costumi, testimoni di una storia millenaria, fossero stati lambiti, se non sopraffatti, dal mito di una modernità che, alla fine, tutto travolse e tutto omologò; e come la civiltà industriale stesse conquistando, tra luci e ombre, tra progresso, periferie e sacche di emarginazione, un’Italia arcaica, destinata a sopravvivere solo nei libri, come il celebre Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, lo scrittore e intellettuale scomparso 50 anni fa, il 4 gennaio 1975.