I dipinti invisibili di Caravaggio
Meno di quindici anni per costruire un mito. Quanto è bastato a Caravaggio per entrare nella storia. Eppure la sua vita è percorsa da zone d’ombra, misteri, avvenimenti ignoti, altri tragici. Stroncato dalla febbre a Porto Ercole, ad appena 38 anni. Giusto il tempo di influenzare gli artisti della sua epoca, in Italia e in Europa: Caravaggio dipingeva il momento culminante di una scena drammatica.
Amato da Alessandro Manzoni tanto che non passano inosservati alcuni stupefacenti riferimenti letterari alla vita di Caravaggio: i genitori di Michelangelo Merisi si chiamavano Fermo e Lucia, come i protagonisti dell’omonimo romanzo preparatorio de I Promessi sposi. Si sposarono e arrivarono a Milano grazie alla protezione e ai buoni uffici di un nobiluomo.
All’epoca Milano era soggetta al potere spagnolo. Ma di lì a pochi anni spiccherà la figura dell’eclettico cardinale Federico Borromeo, dottissimo teologo e cultore delle arti, celebrato da Manzoni ne I Promessi sposi. Guarda caso al Borromeo apparteneva La canestra di frutta dipinta da Caravaggio, conosciuto probabilmente a Roma presso il cardinale Francesco Maria del Monte. Milano, sopraffatta dalla peste, segnerà anche le sorti dei Merisi che cercheranno scampo a Caravaggio, loro paese d’origine nel bergamasco.
In questa biografia familiare pare insomma di percepire, in forma embrionale, la trama, i caratteri e le cupe atmosfere di quello che poi diventerà appunto il capolavoro di Manzoni. E Merisi-Caravaggio, in questo doppio paradigma, reale e letterario, sembra assumere l’inopinato ruolo di «figlio d’arte» non solo di Fermo Merisi e Lucia Aratori, ma perfino di Fermo e Lucia, e poi di Renzo e Lucia. Quella di Manzoni è una stima ricambiata sebbene asincrona.
Se proviamo a visualizzare, tra le righe, i protagonisti dell’intenso e sofferto intreccio de I Promessi sposi, non possiamo non veder materializzarsi proprio quel mondo immaginifico, a volte soverchiante e claustrofobico dai forti accenti chiaroscurali, per l’appunto caravaggeschi, evocato ben due secoli prima dalle opere del maestro lombardo.
Eppure la consacrazione di Michelangelo Merisi arriva solo nel XX secolo, a seguito degli studi di Roberto Longhi e alla memorabile mostra del 1951 che Milano, città natale di Caravaggio, dedicò a uno dei suoi figli più illustri a Palazzo Reale, dove è ritornato in una nuova esposizione di venti opere, prodotta dal Comune di Milano, da Palazzo Reale e MondoMostre Skira in collaborazione con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.
Il Gruppo Bracco ha sostenuto le nuove indagini scientifiche sui dipinti con un progetto congiunto dell’Università di Milano-Bicocca e l’Istituto di Bioimmagini e Fisiologia Molecolare del CNR. Questa volta, a caratterizzare la mostra «Dentro Caravaggio», curata da Rossella Vodret, è stato l’imaging diagnostico realizzato da un pool di esperti coordinati dall’ingegnere Claudio Falcucci.
Nel Sacrificio di Isacco della Galleria degli Uffizi sono emersi alcuni dei cosiddetti «pentimenti» di Caravaggio. L’artista modificava l’opera pittorica, specialmente quando il committente non era soddisfatto o se gli chiedeva di effettuare interventi fuori commessa. «Nel progetto originale – fa osservare Falcucci – Isacco non era appoggiato a una pietra, come appare adesso, bensì a una sorta di ara regolare e squadrata. E poi, molto più in alto nella tela, rispetto a dove si trova ora il montone nella versione definitiva, c’era, in origine, l’agnello sacrificale. Così il dito dell’angelo è rimasto lì a indicare il nulla». In realtà, punta verso l’originale posizione dell’agnello.
«Sempre nel Sacrificio di Isacco – aggiunge Falcucci – l’indagine diagnostica ha rivelato come il dipinto originale fosse più fedele al testo biblico: con l’ara, con l’agnello in mezzo alla vegetazione, e appunto con l’angelo che lo indica».
Altre volte il pittore poteva trovarsi a corto di tela. In corso d’opera, o a dipinto concluso, Caravaggio poteva rendersi conto – oppure essere il committente a volerlo – che uno o più personaggi dovessero avere una visibilità e un ruolo diversi rispetto alla pattuizione iniziale. O addirittura che ne dovessero essere inseriti altri.
Così se il tema del dipinto debordava oppure se Caravaggio aveva bisogno di più spazio, lo reperiva allargando la tela. «È il caso della Flagellazione di Cristo proveniente dal Museo e Real Bosco di Capodimonte, anch’essa in mostra a Milano – spiega Falcucci –. Qui Caravaggio recupera una quindicina di centimetri del supporto di tela, dal margine destro del dipinto, per fare spazio al carnefice che prende il posto di una figura precedente che non aveva nulla a che fare con lui. La testa di questo personaggio appare benissimo nella radiografia. È collocata al di sotto, cioè in corrispondenza della spalla dell’attuale carnefice». È ragionevole supporre che il committente decise di cambiare questa composizione.
In passato capitava con una certa frequenza che sopra un dipinto «venuto male» o che non aveva convinto Caravaggio, l’artista ne dipingesse un altro senza prendersi la benché minima briga di utilizzare una tela nuova. Emblematico, in questo caso, il risultato dell’indagine diagnostica effettuata sulla Buona Ventura dei Musei Capitolini. Grazie alle radiografie, possiamo vedere l’immagine della Madonna che soggiace al dipinto visibile, in asse perpendicolare rispetto a quello dei personaggi ritratti sulla tela.
C’è poi un ulteriore aspetto interessante emerso dalle indagini diagnostiche. Caravaggio è sempre stato considerato un pittore che non disegnava, ma che dipingeva direttamente o, al massimo, tracciava delle incisioni sulla preparazione, cioè lo strato su cui dipingeva. «Affinando le tecniche di indagine – rivela Falcucci – abbiamo dimostrato che Caravaggio, a suo modo, impostava anche un disegno al di sotto della pellicola pittorica che noi oggi vediamo».