19 Aprile 2019

Il coraggio di conoscere

Dobbiamo capire, conoscere, conoscerci. Per combattere la paura, figlia dell’ignoranza. Come dice il nostro amico lettore.
La geografia mondiale non è razzista.
La geografia mondiale non è razzista.
UGURHAN / GETTY IMAGES

«Caro direttore, con la globalizzazione abbiamo assistito all’irrompere delle altre numerose religioni, delle quali tra l’altro la nostra Chiesa informava poco i fedeli. Forse perché era tutto più semplice, ma questo però ha fatto sì che fossimo molto impreparati. Ora io sono disorientato, in particolare perché sento la gente comune considerare le religioni tutte uguali e tutte quindi frutto di debolezze o di fanatismi, senza solide radici. Mi riferisco in particolare a quella ampia fascia di “poco credenti” che dal porsi seri interrogativi è oggi più orientata al disinteresse; mi pare non si riesca a cogliere questa preoccupante tendenza». Gianfranco – Modena  

La geografia mondiale non è razzista né schizzinosa. Non è mai stata, cioè, così divisa a colori uniformi, tanto meno in scompartimenti stagni non comunicabili l’uno con l’altro, come noi magari certe volte vorremmo: qui i bianchi, qui i rossi, qui i neri, e via dicendo. Non lo fu nel lontanissimo passato, per cui nessuno nega oggi che i primi traballanti ominidi arrivarono in Europa dall’Africa. Né nel passato più vicino, quando nell’Italia medievale si potevano tranquillamente incontrare arabi a spasso per le vie di Palermo, albanesi in Calabria, greci in Puglia, stranieri di vario tipo al Nord, calati con le tante invasioni barbariche. Ognuno portandosi dietro il proprio dio o i propri dei. E non lo è oggi. Come si fa a definire la razza americana? O quella europea? Paesi di antica storia coloniale, come Portogallo, Francia e Inghilterra, non è certo da adesso che hanno scoperto di essere abitati anche da persone dal colore della pelle diverso. E di diversa fede religiosa. Forse, al giorno d’oggi, sono cambiati i numeri. E, del resto, si è ulteriormente approfondito il divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri, non sempre per colpa di questi ultimi. Non è un tantino pretestuoso temere la «loro» invasione, quando in verità per secoli siamo stati noi a invadere e saccheggiare i loro Paesi?

Si è sicuramente modificata la percezione che tutti noi abbiamo del fenomeno, soprattutto perché maggiori e in tempo reale sono le informazioni, più o meno corrette, a cui possiamo accedere. Se cento anni fa un ipotetico barcone di profughi in fuga dalla guerra o dalla miseria si fosse inabissato nel canale di Sicilia, chi l’avrebbe saputo, a parte i pescatori della zona? Oggi, anche gli ultimi abitanti rimasti nello sperduto maso di montagna ne saranno informati in men che non si dica. Solo la paura è rimasta la stessa. Quella che avevano gli abitanti della costa adriatica avvistando le vele di una nave turca in avvicinamento, i monaci irlandesi avvistandone una vichinga, gli aztechi, invece, alla vista dei galeoni spagnoli. La nostra però è forse più immotivata, per certi versi irrazionale, e rasenta qua e là l’egoismo. Perché a noi è data la possibilità di informarci criticamente. Ha ragione il nostro lettore: la paura nasce dall’ignoranza. Mentre il tempo che stiamo vivendo è davvero una buona occasione, se gestita da tutti intelligentemente, per entrare in relazione e quindi conoscere la vita degli altri: la loro cultura, la loro fede, il senso che danno al vivere e al morire, i loro bisogni. Fare di tutta l’erba un fascio è solo pigrizia mentale e bieco opportunismo. Paventare che l’incontro con la fede degli altri metta a rischio la propria, è solo indice di quanto poco crediamo nella nostra religione. E di quanto poco ne sappiamo. Tutto il resto – la razza pura, prima noi, i muri –, oltre a essere fuori da ogni razionalità e poco arricchente, per quel che mi riguarda non è nemmeno evangelico.

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Data di aggiornamento: 19 Aprile 2019
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