Il funerale della verità?
La parola del 2016, secondo l'Oxford English Dictionary, è «postverità»: un termine che indica sostanzialmente che «i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare la pubblica opinione degli appelli a emozioni e delle credenze personali».
Le vicende della Brexit e dell'elezione di Trump negli USA non segnalano solo l'inadeguatezza dei sondaggi nel fotografare il reale stato dell'opinione pubblica, o la perdita di contatto della maggior parte dei giornalisti con la realtà di cui dovrebbero dare conto.
Non c'è solo un problema di aderenza ai fatti. In altre parole, non è solo il fact-checking a garantire la verità: i fatti richiamati possono infatti essere veri ma non i più rilevanti, per esempio. Le mezze verità alimentano abbondantemente il volume della postverità, così come l'uso strumentale delle parole, trasformate in bandiere ideologiche requisite da una fazione e sventolate contro l'altra, quando invece sono patrimonio universale dell'umanità. O lo scivolamento deprecabile dell'informazione verso la propaganda, senza che si sia più neppure in grado di rendersi conto di quanto questo rappresenti un problema per la democrazia.
C'è dunque qualcosa di più profondo in questione. Più che un semplice problema di aderenza ai fatti, c'è una questione etica alla base della presa di parola dei media sulla scena pubblica. Intanto occorre ripensare la loro funzione: nei primi studi sui media un illustre studioso definiva i media come i «cani da guardia» della democrazia, addetti a sorvegliare i poteri forti a servizio dei cittadini. Oggi sembrano piuttosto cani da salotto, che scodinzolano a chi offre l'osso più grosso. Ci va bene?
Ma soprattutto occorre riflettere sulle conseguenze che tutti questi «post» hanno sulle nostre vite: dopo la «morte di Dio» decretata dalla modernità e la morte del prossimo sancita dall'individualismo, suoniamo ora le campane a morto per la verità. Che è invece qualcosa che nessuno può mai dire di possedere, ma che non dobbiamo stancarci di cercare. E questo vale per i media, e per noi, nelle nostre esistenze quotidiane.
Forse, è il momento di raccontare una storia diversa.