Il male oscuro
«Il mondo è una gabbia di matti» si dice qualche volta in tono scherzoso. E guardando a tutto ciò che accade intorno a noi, è difficile essere smentiti. Ma se andiamo a snocciolare i dati reali, il sorriso si stempera in una ragionevole preoccupazione. Nel mondo, una persona su otto ha un disturbo mentale, cioè un miliardo di esseri umani. Il 14% sono adolescenti (World Mental Health Report, Organizzazione mondiale della sanità). Il 20% degli italiani soffre di un disturbo psichico, in particolare ansia e depressione (Rapporto Headway). Le condizioni economiche e sociali in molte parti del pianeta afflitte da povertà, guerre, epidemie e carestie costituiscono una causa scatenante. Questo è innegabile. Ma allora perché il disagio mentale è in aumento nella società del «benessere», quella occidentale, con un trend che non risparmia nemmeno l’Italia? «Innanzitutto si è abbassata l’età d’esordio», avverte Massimo Cozza, già coordinatore della Consulta nazionale di salute mentale e attualmente direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma 2, la più grande d’Italia con un bacino d’utenza di 1 milione e 300 mila abitanti. «Poi si sono aggiunte delle co-morbilità a partire dalle dipendenze, come alcol e droghe, e da nuove forme di disagio: pensiamo all’autismo o ai disturbi del comportamento alimentare per i quali ci sarebbe la necessità di aggiornare i nostri piani di salute mentale». Anche l’utenza è cambiata. «In seguito alla pandemia di covid, c’è un incremento del disagio soprattutto tra i giovani che accusano ansia e depressione o addirittura più disturbi concomitanti. Talvolta con l’epilogo del suicidio che oggi è la seconda causa di morte dei giovani, dopo gli incidenti stradali».
180, una «sinfonia incompiuta»
Cento anni fa, l’11 marzo 1924, nasceva a Venezia Franco Basaglia, psichiatra e neurologo, al quale si attribuisce la paternità morale della legge 180 del 1978, chiamata per questo anche «legge Basaglia», e nata con il proposito di rivoluzionare l’intera cultura psichiatrica facendo uscire dal ghetto dei manicomi le persone malate, sottraendole allo stigma sociale e all’isolamento, e restituendo loro quella dignità e quella tutela che erano state negate in precedenza. È dunque illuminante un’intervista di dieci anni prima (1968), che il giornalista Sergio Zavoli fece a Basaglia nel servizio I giardini di Abele all’interno del programma Tv7, disponibile su raiplay.it/programmi/zavoliincontrabasaglia. Eppure la legge 180 e i suoi propositi sono rimasti una «sinfonia incompiuta», come la definisce il professor Ivan Cavicchi che insegna Sociologia dell’organizzazione sanitaria e Filosofia della medicina all’Università di Roma-Tor Vergata, ed è autore del saggio Oltre la 180 (Castelvecchi): «Dopo il varo della legge – rileva Cavicchi – hanno cominciato a venire fuori i problemi. Primi tra tutti, quelli culturali. C’erano molte resistenze nei confronti della medicina, delle evidenze scientifiche, della psicologia, dei trattamenti psicoterapeutici. E poi c’è stata la questione economica. Avevamo pensato di vincolare il 5% dei fondi delle regioni per finanziare la salute mentale. Un vincolo che non ha mai funzionato. Abbiamo dovuto inventare i servizi strada facendo, con operatori che non avevamo ancora formato».
Che cosa occorre, dunque, per superare le paludi della 180? «Ci vuole una formazione degli operatori completamente diversa da quella attuale – prosegue Cavicchi –. Oggi l’università, che è deputata a formare gli psichiatri, non insegna la lezione di Basaglia. Abbiamo orientamenti di atenei che in parte sono contraddittori e in parte anacronistici. I manicomi sono stati chiusi, ma, a 46 anni di distanza, oggi la domanda di salute mentale è enormemente cambiata. Comprende gli adolescenti, le fasce deboli della popolazione, gli immigrati, gli emarginati. Nel 1978 non avevamo il problema delle tossicodipendenze che abbiamo oggi. Questo mix tra dipendenze e disagio mentale è molto forte». In tale quadro c’è una componente che spesso viene trascurata nelle more delle statistiche. «È quella delle famiglie», commenta lapidario Tonino Cantelmi, professore di Psicopatologia presso l’Istituto di Psicologia della Pontificia Università Gregoriana di Roma, e presidente dell’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici. «In seguito alla legge 180, molte famiglie, molte case e condomini sono stati trasformati in “piccoli manicomi”. Oggi la situazione è decisamente migliorata. Abbiamo strutture territoriali, centri di salute mentale, articolazioni terapeutiche a rete, ma non basta. La rivoluzione della 180 ha comportato tempi e sofferenze indicibili. E le famiglie sono state lasciate troppo sole. Perfino oggi, a volte, le famiglie sono sole e disorientate. Inoltre dobbiamo abbattere l’ultima barriera che impedisce l’accesso alle cure, quella dello stigma. Persistono ancora troppi pregiudizi e troppa vergogna quando si parla di malattie della psiche».
Basaglia sosteneva che nelle persone convivono caratteristiche diverse per cui non può esserci una divisione manichea tra normali e matti. «In effetti una delle criticità che noi ravvisiamo è la carenza di cure e riabilitazioni all’interno della società – sottolinea Massimo Cozza –. Una persona con disturbi mentali dovrebbe poter seguire dei percorsi di riacquisizione delle abilità di vita e di relazione, come per esempio gestire una casa, amministrare dei soldi, fare la spesa, usare la cucina, conoscere i negozi del proprio circondario, la parrocchia, ecc. perché la vita è fatta di relazioni. La vera scommessa è un reinserimento fino a dove è possibile. Di solito, un terzo dei malati va verso la guarigione, un terzo mantiene una qualità della vita accettabile, e a un altro terzo, invece, è difficile poter dare delle risposte».
Il disagio psichico in Italia
Secondo i dati dell’ultimo «Rapporto sulla salute mentale in Italia» del ministero della Salute, relativo all’anno 2022, gli utenti psichiatrici assistiti dai servizi specialistici sono stati 776.829, il 54% dei quali sono donne. I pazienti entrati in contatto per la prima volta con i Dipartimenti di salute mentale sono stati 285.101. L’invecchiamento della popolazione ha inciso in modo significativo, con un’ampia quota di pazienti al di sopra dei 45 anni, pari al 67,2%. Le femmine presentano, rispetto ai maschi, una percentuale più elevata sopra i 75 anni. Per quanto riguarda le patologie osservate, i disturbi schizofrenici, quelli da abuso di sostanze e il ritardo mentale sono maggiori nei maschi rispetto alle femmine, mentre l’opposto avviene per i disturbi affettivi, nevrotici e depressivi. Nell’ambito della depressione, il tasso delle utenti donne è risultato quasi doppio rispetto a quello degli uomini.
Nel 2022, «i servizi psichiatrici territoriali hanno erogato 9.326.035 prestazioni con una media di 12,8 prestazioni per utente. Complessivamente l’82,4% degli interventi è stato effettuato in sede, il 9,1% a domicilio, e il resto in una sede esterna. Sempre nello stesso anno, gli accessi ai Pronto soccorso italiani per patologie psichiatriche sono stati 547.477, cioè il 3,2% del numero totale di accessi ai Pronto soccorso (17.183.763). Il 39,4% degli accessi per problemi psichiatrici ha ricevuto una diagnosi di sindromi nevrotiche e somatoformi», queste ultime connotate da uno o più sintomi fisici. Sul piano farmacologico, sono stati spesi nell’assistenza convenzionata, cioè le farmacie, 400 milioni di euro lordi per quasi 38 milioni di confezioni di antidepressivi (e circa 1 milione di euro lordi per 566.707 confezioni nella distribuzione diretta: ospedali e asl). Per gli antipsicotici la spesa lorda complessiva è stata di 84 milioni di euro per più di 6 milioni di confezioni (e circa 73 milioni di euro lordi per 6,4 milioni di confezioni nella distribuzione diretta). Nella categoria del litio, usato per curare depressione, disturbi dell’umore e bipolari, la spesa è stata di circa 3,8 milioni di euro lordi per 861.927 confezioni (e 40.714 euro lordi per 20.744 confezioni nella distribuzione diretta).
Ma veniamo al personale. Nel 2022 lavoravano all’interno delle unità operative psichiatriche pubbliche 30.101 unità, di cui il 17,2% erano medici psichiatri o con altra specializzazione, il 6,9% psicologi, il 42,2% infermieri, l’11,6% operatori tecnici di assistenza e operatori socio-sanitari, l’8,6% educatori professionali e tecnici della riabilitazione psichiatrica, il 4,1% assistenti sociali. Nelle strutture sanitarie convenzionate risultavano invece attive 10.184 unità. Se questi dati sul disagio mentale in Italia sono preoccupanti, nondimeno lo sono quelli relativi agli addetti ai lavori. È ancora Massimo Cozza a lanciare l’allarme: «Oggi mancano circa 10 mila operatori tra medici, psicologi, infermieri, educatori, assistenti sociali, terapisti. Poi c’è un problema di formazione e di cultura. Il cambiamento innestato dalla legge 180 non ha sempre attecchito. A livello universitario, in molti casi, non c’è stata una compartecipazione a questa evoluzione culturale e formativa. Poi c’è la tendenza a dare risposte più di carattere biologico, cioè con gli psicofarmaci».
Tonino Cantelmi confida sul ruolo dei professionisti: «Gli psichiatri italiani sono tra i più bravi del mondo. Tuttavia per la salute mentale spendiamo 4 miliardi di euro ogni anno. In realtà servirebbero 2 miliardi in più per adeguare il personale, per migliorare le strutture logistiche e rilanciare le terapie moderne. In ogni parte del territorio italiano c’è un centro di salute mentale, ma dobbiamo costruire reti e integrazioni tra servizi e professionisti, pubblici e privati». Purtroppo il mondo viaggia verso la depressione. «Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità – aggiunge Cantelmi – sarà la principale causa di invalidità e il maggior fardello di ogni sistema sanitario nazionale. Ciò significa che dobbiamo investire in salute mentale. La patologia psichica genera povertà, famiglie sfaldate, perdita del lavoro, carriere compromesse, fallimenti economici, marginalizzazione, criminalità. Ma per ogni euro investito in salute mentale, se ne risparmiano almeno quattro per la riduzione dei costi indiretti. Oltre a un boom del disagio psichico nell’infanzia e nell’adolescenza, assistiamo anche a un incremento di dipendenze comportamentali: gioco d’azzardo, lavoro, sesso, tecnologia, shopping».
Emergenza giovani
Oggi si tende a colpevolizzare i giovani che trascorrono troppo tempo sugli smartphone e sui social. Ma nessuno sonda abbastanza a fondo il disagio all’origine di questa dipendenza dalla tecnologia che diventa, in certi casi, alienazione o rifiuto della relazione con l’altro. E questo disagio, a volte latente, finisce per essere camuffato. «Non posso che essere d’accordo», ribatte il professor Ivan Cavicchi. «Io sono colpito anche da una grande contraddizione: per statuto la psichiatria deve occuparsi di prevenire i suicidi, ma non fa nulla per prevenire gli omicidi. Per esempio, gli omicidi di genere che vengono consumati a danno delle donne sono del tutto ignorati dalla psichiatria eppure fanno parte di un malessere trasversale. È vero, questo disagio è camuffato. I servizi di salute mentale dovrebbero essere al primo posto, invece sono all’ultimo. Vengono de-finanziati, trattati male. Non si assume personale. Si delega molto al privato, alle cooperative, come se lo Stato se ne lavasse le mani mentre le famiglie sono le prime a essere colpite in pieno».
La legge 180 era nata per alleviare le famiglie, ma alla fine sono proprio le famiglie, anche quelle dei giovani, non solo dei pazienti psichiatrici conclamati, a sentirsi oppresse e dimenticate. «Non è solo una questione di soldi – ammette Cavicchi –. Il settore della salute mentale non impiega tecnologie. Noi non facciamo Tac, né radiografie, né analisi cliniche, se non marginalmente. Il vero capitale del nostro servizio di salute mentale sono le professioni. Bloccare gli organici com’è stato fatto con le politiche di questo governo e di altri precedenti, significa tagliare le gambe direttamente ai diritti dei cittadini, perché se riduci gli operatori, tagli i diritti dei cittadini, tagli l’assistenza. Poi c’è la questione della formazione, dell’università, dell’organizzazione dei servizi, di che cosa fare nei servizi. Ci sono psichiatri che concepiscono la cura semplicemente come un “badantato” ovvero tenendo sotto controllo il malato e dandogli tutte le sue libertà. Ci sono altri psichiatri che invece seguono metodologie scientifiche». E ci sono operatori sanitari che sono soggetti a una disciplina giuridica del loro lavoro, che spesso non coincide affatto con le complesse situazioni che devono gestire tutti i giorni.
Le JOB Stations di Itaca
È nata a Milano nel 2012, ma oggi ha 17 sedi attive in tutta Italia. La Fondazione Progetto Itaca (https://progettoitaca.org) «promuove programmi di informazione, prevenzione, supporto e riabilitazione rivolti a persone affette da disturbi della salute mentale, e alle loro famiglie, e le sostiene nel percorso di recupero del benessere e della pienezza di vita». A ribadirlo è la presidente della Fondazione, Felicia Giagnotti: «Noi crediamo che i disturbi della salute mentale siano patologie curabili, e che ogni persona che ne è colpita meriti un aiuto tempestivo, una diagnosi corretta e una cura efficace per condurre una vita soddisfacente. La nostra organizzazione si sostiene sul lavoro e sull’impegno di più di 700 volontari. Progetto Itaca è nato con due precisi obiettivi: cambiare la mentalità comune sulla malattia mentale e su chi ne è colpito, attraverso un’informazione scientificamente corretta e rivolta a combattere pregiudizio e stigma, e supportare pazienti e familiari nel difficile percorso di riconoscimento e cura della malattia. Pertanto ci siamo sempre impegnati in settori come informazione, prevenzione e supporto, inclusione sociale e lavorativa, nei quali le strutture pubbliche sono poco presenti, anche in conseguenza delle continue carenze strutturali dei servizi. Oggi siamo all’“emergenza” e in gravissime difficoltà. Noi rispondiamo cercando di sviluppare sempre di più i nostri interventi, diffondere i nostri progetti, sempre a fianco delle strutture pubbliche della cura, riempiendo gli spazi vuoti e gli ambiti scoperti».
Progetto Itaca ha avviato da tempo un’originale collaborazione con il mondo del lavoro, perché il disagio psichico si combatte anche con la restituzione alle persone di una riconoscibilità e una dignità sociale che possono e devono venire anche da un impegno lavorativo. «Va constatato che da parte di aziende private e pubbliche, la diffidenza e il pregiudizio sono ancora molto vivi – lamenta Giagnotti –. Ci si ferma spesso alla disabilità fisica. Le statistiche parlano chiaro: nel 20% di inserimento lavorativo, solo il 5% è riservato alla disabilità psichica. La nostra esperienza e l’impegno per l’inserimento nel mondo del lavoro di persone con una disabilità psichica riconosciuta rappresentano un primo segnale di inversione di tendenza. Il nostro progetto “JOB Stations”: lavoro a distanza in spazi dedicati all’interno delle nostre sedi, attivo in nove Club Itaca, ha incontrato grande interesse e accoglienza – conclude la presidente della Fondazione –. Alcune aziende attente e sensibili ci hanno dato fiducia con feedback molto positivi e incoraggianti».
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