01 Luglio 2021

Il senso del grano

Hanno deciso di tornare nelle terre di famiglia e di coltivare il sogno di una agricoltura possibile. Sono i contadini della cooperativa sociale «Terre di resilienza».

Mietitura ad Arnici

A metà luglio, un gruppo di mietitori si ritrova sulle colline dell’agro di Arnici, campagne di Atena Lucana, terra ai confini fra Campania e Basilicata. Un tempo, decenni e decenni fa, per la mietitura, sarebbero arrivati, dalle Puglie, i braccianti di Terlizzi o di Bisceglie, oggi sono giovani uomini e donne che vedono nel grano (grano in purezza, privo di contaminazioni) un frammento del futuro del Sud. Già, questi nuovi contadini (attenzione: non amano la facile retorica) respingono il marchio «grani antichi»: preferiscono parlare di grani locali, grani del futuro. Di nuovo, fate attenzione: questa è una storia semplice, ma quasi impossibile da raccontare in poche righe.

Questi contadini che ruotano attorno alla cooperativa sociale «Terre di resilienza» hanno inventato un nuovo/antico linguaggio: sono convinti che nelle culture locali, vi sia «un’eredità rivoluzionaria». Hanno creato una cumparete, una rete di compari e commari: molti di loro hanno in tasca lauree importanti (sono sociologi, filosofi, geologi, chimici) e, dopo gli anni di università lontani da casa, hanno deciso di tornare nelle terre di famiglia. E di coltivare il sogno del grano, dei legumi, di una agricoltura possibile. Annunciano: «Abbiamo deciso di investire nei nostri territori rurali, ai margini dello sviluppo economico». Credono nel Sud d’Italia.

La chiesa valdese ha avuto fiducia in questi contadini. E ha aiutato a compiere l’investimento più impegnativo: l’avvio, nel 2017, in Cilento, di un molino a pietra a Caselle in Pittari e la creazione di un monte frumentario, la versione da terzo millennio di una antica organizzazione contadina sorta per la prima volta alla fine del XV secolo. In origine aveva lo scopo di distribuire i semi del grano a contadini poveri; nei secoli i monti frumentari hanno salvato dalla fame generazioni di gente delle campagne, ma hanno subito crisi e sbandamenti fino a essere aboliti con l’unità d’Italia.

I contadini che stanno per mietere il grano ad Arnici hanno ripreso questa storia perduta e creato, nel Sud della Campania, un’organizzazione (informale) che presta grani locali a chi vuole seminare senza chimica, condividendo «una certa etica del fare agricoltura». È nata così una piccola economia di comunità, basata su relazioni personali, sulla fiducia, e su una ricerca agricola capace di combinare tradizioni e conoscenze agrarie moderne.

Quante parole. Per cercare di capirle dovreste davvero essere ad Arnici a mietere. Mietitura a mano, trebbiatura con una gloriosa macchina degli anni ’50. Si lavora in un campo catalogo, strisce di terre su cui si è seminato «grano in purezza», attenti a evitare contaminazioni: ottanta varietà, Khorasan, saragolla rossa, ianculidda, «miscuglio di Aleppo», orzo nero…lo scorso anno fu seminato perfino del teff, proveniente dagli altopiani etiopici (ce l’ha fatta a nascere in terra campana). Si è seminato per la riproduzione di questi grani.

Prima lezione per un cittadino capitato in mezzo a una bella storia di grano. È il segnale della mietitura: Iamoncenne, annuncia Antonio, uno dei compari. Provo anche io a mietere, ma qualcuno deve guidare i miei gesti impacciati: devo piegare la mano sinistra, sistemare bene le dita, afferrare il gambo e tirare in maniera decisa verso di me. Come se tirassi una corda. Poi, il colpo del falcetto, stringere più steli possibile e, infine, ruotare il braccio con un gesto quasi aereo e depositare alle mie spalle la fascina di grano.

Il grano che sta in una mano, un tempo si chiamava, scern’ti. Andrà steso a terra, legato con un cordino, a formare una gregna, una sorta di micro-covone che, più tardi, sarà recuperato da un trattore. Una mietitura lenta. Cercano di spiegarmi quanto sta accadendo: «I semi sono una memoria del raccolto dell’anno precedente. Non solo: sono la memoria energetica di chi ha seminato». A cosa sto partecipando? A un poema? A una piccola, marginale rivoluzione? A un’economia della speranza? A fine mattina io sono già stanco, il senso della fatica, del lavoro, della terra.

Solo nel pomeriggio, Franchino, 70 anni (per anni e anni, emigrante in Germania: operaio delle fabbriche dell’acciaio, autista, saldatore) avvia la sua antica trebbiatrice, sistemata ai confini dei campi-catalogo. Era stata abbandonata in un dirupo: Franchino l’ha resuscitata e, nei giorni della mietitura di grani preziosi, ha ripreso a lavorare con fracasso di cinghie, di incastri ruotanti, di leve e contro-leve. I denti della trebbiatrice inghiottono il grano, separano i chicchi dai gambi. Dopo il soffio potente di alcune ventole, il grano viene lasciato cadere in sacchi celesti.

Solo quando sta per imbrunire, la trebbiatrice finisce il suo lavoro. Polvere di paglia nell’aria. Ci raduniamo attorno ai sacchi. Una giornata di fatica per alcuni chili di chicchi. Semi per le prossime semine: da loro nasceranno i raccolti dei prossimi anni. La resa? «Un quintale di semi per dodici quintali di raccolto». Spero di aver capito bene i calcoli che vengono fatti. C’è un piccolo applauso. I mietitori sono contenti, ci saranno altri raccolti di grano di grande qualità.

(Per cercare di capire di più: www.montefrumentario.it e www.terrediresilienza.it)

 

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Data di aggiornamento: 01 Luglio 2021
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