«Pomodori rosso sangue»
Diletta Bellotti ti basta vederla una volta per non dimenticare mai più il suo viso. Mora, olivastra, con gli occhi di un nero denso, è magnetica nel modo un po’ inquietante in cui lo sono le persone che coltivano un’ossessione. La sua si chiama «lotta al caporalato agricolo» e se l’è scelta in modo deliberato il giorno in cui ha concluso gli studi universitari in Diritti Umani e Migrazione internazionale a Bruxelles. «Al momento della tesi ho pensato a cosa volessi essere e la risposta è stata: un’attivista». Diletta non sapeva ancora di cosa si sarebbe occupata, ma il suggerimento è arrivato dalla vita. «Mio padre è barese, quindi passo da sempre le vacanze in Puglia. Un giorno, leggendo della morte per fatica di una delle tante braccianti che raccolgono i pomodori in Puglia, non ho potuto fare a meno di guardare quei campi con altri occhi. Così ho cominciato a informarmi sulla questione del caporalato e ho deciso che il mio attivismo si sarebbe concentrato su quello».
Non è la prima volta che in questa rubrica racconto una storia di lotta al caporalato, un fenomeno che in Italia negli ultimi sei anni ha ucciso 1.500 persone per portare a prezzi stracciati sulle nostre tavole la verdura e la frutta che chiamiamo orgogliosamente made in Italy. I lettori e le lettrici ricorderanno in particolare la storia di Aboubakar Soumahoro, il sindacalista ivoriano che da anni dà voce agli sfruttati dei campi, soprattutto stranieri, che in Italia sono quasi 400 mila, molti dei quali senza permesso di soggiorno, in mano alla malavita e all’industria senza scrupoli.
Bellotti per il suo percorso di giustizia ha scelto una modalità diversa e solo apparentemente meno politica: quella artistica. Prima di farlo, ha studiato, come tutti i performer, e per capire la situazione dei braccianti nelle terre dello sfruttamento esiste un solo modo: andare a vedere la loro realtà con i propri occhi. È quello che ha fatto nell’estate del 2019, partendo per la Puglia da sola e andando a mischiarsi per un mese ai lavoratori sottopagati che dormono nella baraccopoli di Borgo Mezzanone. Ha corso un rischio grande: una donna giovane, bianca e italiana in quel contesto salta subito all’occhio a chi organizza lo sfruttamento e il rischio che dalle domande si passi alla peggiore delle risposte è molto alto. Per questa ragione ha scelto di non andare in prima linea nei campi, ma di dormire nel retrobottega di un negozio di alimentari e guadagnare qualcosa rollando sigarette a dieci centesimi l’una.
La baraccopoli di Borgo Mezzanone – che Diletta preferisce chiamare «insediamento informale» per non generare ulteriore discriminazione con le parole – è abitata soprattutto da persone che provengono dall’area subsahariana, che hanno costituito una comunità forte, con relazioni di mutuo aiuto e riconoscimento reciproco. Non vogliono fare quel lavoro per sempre, ma vogliono comunque restare in Italia e per questa ragione il rischio di derive violente tra di loro è basso. Altre tipologie di braccianti sottopagati, come gli sfruttati che vengono dalla Polonia, fanno solo le stagioni e non hanno alcun interesse a tessere relazioni umane di tipo permanente. La conseguenza di questo turn over è un tasso di violenza molto più alto tra i bianchi che non nelle comunità di colore più sfruttate. Diletta ha vissuto con loro. Dopo un mese la sua presenza era stata notata con fastidio da chi organizzava il caporalato, ma quello che aveva visto con i suoi occhi era sufficiente per poter creare una performance ad alto tasso di disturbo, chiamata Pomodori rosso sangue.
Ha così cominciato a girare le principali piazze d’Italia con l’intento di creare quel disagio che solo l’arte che parla di ingiustizia sa risvegliare nelle coscienze di chi passa. Al centro dell’azione artistica di Diletta c’è il suo stesso corpo, avvolto nella bandiera italiana e fermo al centro della piazza. L’attivista addenta dei pomodori da cui fuoriescono succo e sangue finto che colano per il mento e macchiano il volto e la bandiera. «La mia scelta non è stata quella di mettere in scena l’odio o la rabbia, che pure provo per ciò che ho visto. Ho preferito restituire un senso di disgusto abbinato a un cibo rassicurante (il pomodoro) che fa parte della nostra tradizione culinaria più identitaria».
Il risultato ha un effetto distorsivo che costringe a fermarsi, da un lato attratti dai simboli che ciascuno di noi riconosce e dall’altro respinti dalla violenza profonda che il gesto evoca, come se addentando il pomodoro lavorato senza diritti ciascuno di noi si stesse vampirescamente nutrendo del sangue delle persone sfruttate nella raccolta. Il lavoro di Diletta è sulla sua pagina Instagram e l’attenzione che è riuscita a catalizzare intorno al tema l’ha portata a collaborare con realtà come Libera e Slow food per promuovere campagne di marketing di prodotti agricoli caporalato-free. Il ribaltamento artistico si rivela così l’atto più politico, perché fa in modo che il pomodoro che rende schiavi possa diventare il simbolo che innesca la liberazione. Niente esiste di quello che non viene raccontato e l’azione più potente che si può fare verso le ingiustizie è rompere il silenzio che le nega.
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