12 Agosto 2020

Il silenzio cattivo è una muffa

Un guardiano delle ferrovie alla disperata ricerca di verità sulla scomparsa del figlio. È il protagonista di «Muffa» (Turchia/Germania 2012), diretto da Ali Aydin.
Muffa
Nel 2012 il film «Muffa» ha vinto il Leone del futuro – Premio Luigi De Laurentis alla Mostra del Cinema di Venezia.

Ogni giorno, instancabilmente, il 60enne taciturno Basri (interpretato dall’attore Ercan Kesal) ispeziona i binari del treno, chilometro dopo chilometro. In mano una radiolina, la sua borsa, i suoi farmaci per l’epilessia. Segnala guasti, libera da ostacoli le rotaie, rimedia ai vandalismi. Tozzo, baffuto, introverso, Basri è solo, essendo rimasto vedovo precocemente. Ma c’è un altro lutto che lo angoscia e assorbe ossessivamente: da diciotto anni è scomparso suo figlio Seyefi, studente universitario a Instanbul. Morto? Desaparecido? Rapito o incarcerato, forse per dissidenza politica?

Basri vuole una risposta e ogni quindici giorni scrive al commissariato una lettera, sempre uguale, per chiedere notizie. Questo rituale implacabile, che sta tra la devozione funebre, il legittimo diritto di sapere e la nevrosi ossessiva, irrita i funzionari di polizia (che lo hanno già duramente interrogato) e lo espone alla derisione pubblica. «Nessuno sa quello che provo, mi hanno intralciato in tutti i modi, ma io non mollerò, se Allah mi darà vita». Che cosa troverà? Riceverà risposta? Avrà almeno delle spoglie da seppellire e compiangere (un desiderio straziante, portato in scena sin dall’antica tragedia greca)?

Il film restituisce il ritmo lentissimo, l’atmosfera immobile, la natura ammutolita che circonda e permea una personalità lacerata dal dolore, dalla rabbia, dal sentimento di impotenza e colpa. Una regia agra quella di Aydin (classe 1981), essenziale, disadorna, inchioda gli spazi scabri e spogli come da una telecamera di sorveglianza. Niente accade, tutto tace, tutto può nascondere una traccia. Anche Dio (Allah) sembra lontano, ma Basri non dimentica di pregarlo. Questo padre va al lavoro, frequenta la moschea, sopporta gli altri operai balordi e ubriachi che lo provocano, sfida l’omertà degli uffici governativi che nascondono in archivio le centinaia di buste mai aperte, in cui l’uomo ha gridato il proprio legittimo dolore. Il silenzio cattivo, cui Basri è segregato, si incrosta come una muffa corrosiva nell’animo suo e di chi gli sta vicino: nessuna solidarietà, nessuna parola di conforto, nessuna relazione sociale significativa.

Leggiamo il film come un manifesto di etica della vita. Basri è un sopravvissuto. Sua madre aveva partorito un feto morto, due suoi fratelli erano deceduti in culla e anche a lui stavano scavando la fossa, per un rantolo che pareva inguaribile. Sembrava inutile persino allattarlo. Ma Basri resiste, supera quella crisi e altre patologie di un’esistenza povera. In cambio, Basri ha trovato il suo destino, il binario dritto lungo cui procedere, la strada giusta che lo libererà dalle insidie: testimoniare per la vita col silenzio del suo lavoro, con la cura per quelle rotaie, con la testarda fedeltà alle memorie dei suoi cari. «Allah, aiutami!»  egli invoca, quando la sorte lo minaccia.

Basri è al suo posto, come un medico che svolge con silenziosa diligenza il proprio compito di prevenire, sanare, riabilitare, turno dopo turno, epidemia dopo epidemia, malattia dopo malattia. Non tutto potrà essere salvato, non si riesce sempre a rimediare al male, ma un’alleanza con la vita è siglata, costi quel che costi. Basri non è senza macchie, ma è rocciosamente fedele alla promessa di servire l’uomo vĭātŏr (passeggero di treno, viandante in una valle di lacrime), di onorare la carne dei vivi e le salme degli estinti.

Ispirato alla storia politica turca degli ‘90 e alle coercizioni imposte da un governo di estrema destra, il film documenta il doloroso fossato di violenza e incomunicabilità scavato tra potere e società, tra l’indigenza della periferia (il paesino anatolico di montagna in cui vive il protagonista) e la burocrazia della capitale, l’incomunicabilità tra gente del popolo e funzionari statali, tra maggioranza etnica e minoranza curda.

Ma la pellicola è anche un’esplorazione morale nel cuore dilaniato di un oppresso, costretto a soffocare i suoi sentimenti fino a diventare lui stesso insensibile, muto, inespressivo, incapace di chiedere e offrire aiuto. La paura ha congelato i cuori e la cecità morale ha contagiato le comunità.

 

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Data di aggiornamento: 12 Agosto 2020
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