Il tempo che siamo
È un giovedì pomeriggio come un altro in sala d’attesa. Quattro persone fissano la porta dell’ambulatorio del medico di famiglia nella speranza che si apra: c’è chi sbuffa, chi si alza in piedi ogni cinque minuti, chi avanza scuse per saltare la coda. Il manager ha fretta di tornare in ufficio, nonostante la tosse che non gli lascia tregua, il teenager, incollato al suo smartphone, sta già verificando il meteo del weekend e, nel frattempo, ha prenotato online la pizza per cena. La signora con la borsa della spesa è in ansia, perché dovrebbe essere già davanti a scuola a recuperare suo figlio, e infine l’anziana sull’ottantina continua a controllare l’orologio al polso perché a casa l’aspetta la sua serie tv preferita. A dispetto delle evidenti differenze, ad accomunare queste persone è una cosa sola: la mancanza di tempo. Sì, il tempo, uno tra i beni più preziosi di cui disponiamo, ma anche quello che tendiamo a dare maggiormente per scontato, finendo spesso sommersi dai rimpianti, quando non ne abbiamo più.
«L’arco che ci è concesso trascorre in modo così lesto e rapido che la maggior parte di noi giunge al termine dell’esistenza proprio quando si sta preparando a vivere» scriveva Lucio Anneo Seneca nel De brevitate vitae. Se già per gli antichi romani ottimizzare il tempo era un’impresa, figuriamoci per noi oggi, immersi come siamo nel mondo del tutto e subito, della produttività h24 e delle tecnologie in continua evoluzione. Ne sa qualcosa l’Istat che, nell’indagine La soddisfazione dei cittadini per le condizioni di vita riferita al 2024, ha registrato un arresto nella crescita della soddisfazione, passata dal 46,6% del 2023 al 46,3%. In particolare, la ricerca si riferisce alla soddisfazione degli italiani per le relazioni familiari (87,9%) e amicali (79,7%), per la salute e, soprattutto, alla soddisfazione per il tempo libero (66,3%), scesa di 1,8 punti percentuali rispetto al 2023.
Posto che la soddisfazione del cittadino (e quindi anche il suo rapporto con passato, presente e futuro) sta alla base del benessere di un Paese, non c’è da stupirsi se dal 1990 ad oggi, oltre 80 nazioni in tutto il mondo hanno condotto indagini sull’uso del tempo. O se a questo proposito è nato addirittura un database di metadati e un Centro di Ricerca (Centre for Time Use Research - https://timeuse.org/). «Fino alla fine degli anni Sessanta, furono prevalentemente ricercatori accademici a utilizzare informazioni di uso del tempo – scrive ancora l’Istat in un’altra indagine: I tempi della vita quotidiana – Lavoro, conciliazione, parità di genere e benessere soggettivo, del 2019 –. A partire dagli anni Settanta, però, la statistica ufficiale ha sempre più riconosciuto il valore delle informazioni sui tempi di vita delle persone per indagare aspetti diversi, non solo nel campo della ricerca sociale, ma anche come base informativa per la formulazione delle politiche pubbliche». Da materia per pochi a cartina di tornasole per comprendere la società. Storpiando un vecchio proverbio… «Dimmi come spendi il tuo tempo e ti dirò chi sei».
Lancette e tecnologia
Conscio che nella vita c’è sempre margine di miglioramento, Oliver Burkeman nel suo libro Quattromila settimane: gestione del tempo facile ed efficace (TEA) parte da un presupposto duro da digerire ma reale: il nostro tempo a disposizione sulla Terra è breve, per questo va organizzato al meglio. «La gestione del tempo, nel senso più ampio del termine, dovrebbe essere la maggiore preoccupazione di ognuno di noi – scrive il columnist del “Guardian” –. In fin dei conti, vivere non è altro che gestire il tempo. Eppure la disciplina che oggi porta questo nome (così come sua cugina più alla moda, la produttività) sembra avere orizzonti ristretti: come massimizzare il rendimento sul lavoro, come elaborare la perfetta routine mattutina, come preparare tutte le cene per la settimana in un’unica volta».
Se viviamo «ossessionati da caselle di posta elettronica stracolme ed elenchi infiniti di attività da sbrigare, perseguitati dal senso di colpa perché non facciamo di più o meglio (o di più e meglio)» la colpa è anche del nostro rapporto con il tempo che «è sempre stato burrascoso», ma oggi – grazie all’avvento delle nuove tecnologie – ancora di più. «Con l’introduzione delle tecnologie digitali, negli ultimi vent’anni la nostra percezione del tempo è molto cambiata» conferma Mattia Vitiello, ricercatore dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del CNR. Se anni fa con il telefono si poteva solo chiamare, oggi chi possiede uno smartphone ha tra le mani una sorta di computer portatile che, di fatto, è in grado di assolvere a ogni nostra necessità: non solo chiamare e scrivere, dunque, ma anche acquistare, informare, fotografare, riprendere, giocare, viaggiare, persino meditare! Risultato: anche quando siamo «in pausa» dal lavoro, in realtà produciamo e forniamo dati alle grandi piattaforme.
Nell’epoca digitale tutto va più veloce, con la conseguenza che al cervello umano non resta il tempo fisiologico per adeguarsi al cambiamento. Si tratta, in altre parole, di una accelerazione che – come ipotizzava il sociologo tedesco Helmut Rosa – porta alla contrazione del presente e rende impossibile la concertazione del futuro in base alle conoscenze pregresse. «Schiacciati dal passato in un eterno presente, perdiamo la connessione con le nuove generazioni e, non riuscendo più a pensare il futuro, andiamo incontro all’alienazione» spiega Vitiello. Che fare dunque per invertire la rotta? Per l’esperto «dobbiamo costruire un nuovo orizzonte temporale di riferimento, nell’ottica di creare connessioni non solo con e nel tempo, ma anche con gli altri». In questo nuovo scenario gioca un ruolo decisivo anche il concetto di produttività…
«Un vecchio slogan di inizi ’900 diceva: “Otto ore per lavorare, otto ore per dormire, otto ore per vivere” – ricorda Vitiello –. Al di là dell’opportunità di questa tripartizione, quel che è certo è che oggi sono a rischio anche quelle otto ore di riposo!». Per non parlare delle pause che durante la giornata sarebbero sacrosante, ma che in realtà vengono spesso, complice la tecnologia, fagocitate dal lavoro. Alzi la mano chi non ha mai risposto a una e-mail durante la pausa caffè o prima di cena. «È importante riabilitare il concetto di ozio, inteso come ozio creativo e non come il padre di tutti i vizi» aggiunge Vitiello. Per non parlare della capacità di affrontare i tempi morti… «Oggi non siamo più capaci di gestire l’attesa. Sia che aspettiamo un turno, una risposta o un treno, ogni volta sentiamo di perdere tempo e iniziamo a produrre… e-mail, messaggi, acquisti nei negozi… Basti pensare cosa sono diventate le stazioni ferroviarie: da spazi vuoti di attesa dove potevi leggere il giornale in pace o scambiare quattro chiacchiere con altri viaggiatori, a “supermercati” dove trovi di tutto e puoi acquistarlo».
Il paradosso è servito: non abbiamo mai tempo, eppure per spendere denaro e produrre contenuti il tempo non manca mai. Viene in mente l’immagine fornita dall’antropologo statunitense Edward T. Hall secondo cui il tempo sarebbe simile a un nastro trasportatore a ciclo continuo la cui velocità viaggia di pari passo alla nostra produttività. Ma è davvero il tempo che si adegua a noi o siamo noi che dobbiamo adeguarci a lui? Che cosa lo rende – a detta dell’Istat (I tempi della vita quotidiana – Lavoro, conciliazione, parità di genere e benessere soggettivo, 2019) – «tra tutte le risorse la più democratica», in quanto «ripartito equamente tra tutti, avendo ognuno di noi a disposizione le stesse 24 ore al giorno»? Sarà proprio questo carattere flessibile a rendere il tempo di tutti e di nessuno? Parafrasando Pascal Chabot nel libro Avere tempo. Saggio di cronosofia (Treccani), «il tempo ha mille volti. È ovunque e cambia sempre. È il passato e il futuro, il presente e il divenire. È un mistero che sfida la nostra comprensione, una stranezza che comprende la vita e la morte».
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