Impariamo la fragilità dai dinosauri
Niente alberi, zero ombra, temperature sopra i 45 gradi. Il paesaggio che si schiude all’orizzonte ha qualcosa di familiare. Il profilo delle rocce è quello tipico dei calanchi. Non siamo, però, nel nostro Sud Italia, bensì oltreoceano, per l’esattezza in Canada, provincia dell’Alberta, nel bel mezzo delle Badlands, terre cattive. Al lavoro, tra le rocce, una squadra di studenti universitari. Osservano palmo a palmo il terreno, ne scrutano da vicino i sassi, li sfiorano con le mani per carpirne i segni, decifrarne le scalfitture. A guidarli, in una delle prime missioni finalmente sul campo dopo la pandemia, è Federico Fanti, docente di Paleontologia a Bologna, dove è nato e vive dividendosi tra la cattedra e i luoghi più remoti del pianeta: Australia, Mongolia, Canada, Tunisia, Messico, Alaska, Turkmenistan. Perché il professor Fanti, oltre a essere un paleontologo, è un «cacciatore di dinosauri» tra i più noti al mondo. «Quando mi chiedono che cosa faccio nella vita – esordisce –, potrei dire che sono un professore all’Università di Bologna, ma non riesco a non usare anche il mio primo biglietto da visita: “Io, di mestiere, scavo dinosauri”».
Msa. Che cosa significa «scavare dinosauri»?
Fanti. Vuol dire cercare tra le rocce creature vissute milioni di anni fa, far parlare i reperti di quella vita prima della nostra vita, chiederci che cosa avveniva sul nostro pianeta quando la nostra specie nemmeno esisteva. La meraviglia che esercitano queste bestie è smisurata quanto i loro scheletri. Il loro mondo è anche il nostro mondo. È nostra come lo fu per loro, la Terra su cui oggi camminiamo, lavoriamo, costruiamo. Con quei bestioni siamo connessi più di quanto possiamo pensare.
Come si «cacciano» i dinosauri?
In un unico modo: con gli occhi. Ore e ore guardando a terra, in attesa di scorgere un osso, un dente, un fossile. Gli occhi sono lo strumento più prezioso nella nostra cassetta degli attrezzi. Per capire il linguaggio silenzioso delle ossa bisogna, poi, studiare l’area che le circonda. I resti ritrovati sono in ordine o sparpagliati in modo casuale? Se sono in ordine, è probabile che celino uno scheletro o più di uno.
Perché alzare lo sguardo e osservare i luoghi?
Oltre che paleontologo sono un geologo: per me è fondamentale conoscere i territori, quelli che vediamo ma anche quelli che non vediamo più e che si possono ricostruire attraverso gli indizi nascosti. Spesso sappiamo tutto sull’aspetto corporeo di questi bestioni, quasi nulla invece su come sono morti, sul perché si trovano in un luogo e non in un altro, su che cosa davvero accadde milioni di anni fa.
Quando inizia la sua storia professionale?
Nel 2003, con una laurea in Scienze geologiche, poi un lavoro da portiere di notte in un albergo, dove mi sono guadagnato i primi stipendi, fino a propormi come volontario in un campo scavi in Canada. Da allora sono iniziate le mie due vite: la prima, alla ricerca di un lavoro stabile tra dottorato, assegni di ricerca e precariato fino al posto di professore e poi la seconda, in giro per il mondo a caccia di dinosauri.
Una curiosità: da piccolo ci giocava?
Come tanti altri bambini, ero rapito da queste creature tanto da collezionare decine di T-rex e stegosauri. Il mio unico sogno era poter fare esattamente ciò che sto facendo ora. Non ho mai desiderato fare altro.
Come capire quando un semplice sasso altro non è che un osso di dinosauro?
Ci aiuta il confronto visivo: la pietra è più liscia e omogenea in superficie; l’osso, invece, è una specie di spugna solidificata, bucherellata. Osserviamo, poi, la forma: di rado un sasso ha una sagoma ben rifinita che ricorda un osso o un dente. E il colore: il fossile ha un colore diverso dalla roccia che lo contiene. Infine, per un ricercatore è indispensabile… la lingua. Lo sanno bene i miei bambini che si divertono a dire: «Papà lecca i dinosauri». In effetti, la lingua è uno strumento infallibile: se la si appoggia sopra un sasso, questo non si attacca ma scivola via, perché non ha una porosità che lo tenga «fissato» alla lingua stessa. Al contrario, un osso vi si «attacca», anche per poco, proprio come fosse una spugna.
Il nostro è un «Paese di dinosauri»?
Il nostro non è un Paese ricco di siti. Di recente, però, abbiamo fatto una scoperta eccezionale. Al Villaggio del Pescatore, vicino a Trieste, abbiamo individuato il più grande sito paleontologico italiano. Un primo dinosauro, rivenuto 30 anni fa, fu chiamato Antonio. Ora sono stati trovati 7 esemplari, di cui uno completo che è stato chiamato Bruno.
Allora è vero che voi studiosi li chiamate per nome…
Sì, ogni dinosauro ha un nome scelto per semplificarne l’individuazione. Anch’io ne ho assegnato uno: è un animale scoperto in Mongolia, una terra dalle emozioni continue perché inesplorata. Si chiama Mary, dal nome di mia moglie.
Quanti sono i dinosauri finora rinvenuti?
Appena 1.400, un numero piccolissimo rispetto ai milioni e milioni che ne rimangono da scoprire.
Il suo preferito?
Lo Stegosaurus, grandi placche sulla schiena e coda armata di punte. Però non ho mai desiderato dedicarmi alla ricerca di una sola specie.
Chi fu il primo cacciatore di dinosauri?
Fu una cacciatrice: Mary Anning (1799-1847). Senza di lei non avremmo nemmeno la paleontologia. La mole di prove concrete raccolte l’ha resa un mito per tutta la comunità scientifica moderna e un idolo per tutte le generazioni.
Nel 2017 «National Geographic» l’ha scelta come Emerging Explorer, onore riservato a pochi. I suoi documentari e la trasmissione su Sky Il cacciatore di dinosauri sono tra i più seguiti. Sfida non da poco la divulgazione scientifica...
Attraverso i miei dinosauri cerco di comunicare la bellezza e l’importanza della ricerca, facendo toccare con mano il mio lavoro a più persone possibile. Tante le ragioni. Una tra tutte: nei 180 milioni di anni durante i quali i dinosauri hanno popolato la Terra ci può essere la chiave dei futuri possibili che ci riguardano. Una sfida ardua.
Perché andare a caccia di ciò che non esiste più?
Queste creature sono l’icona di un tempo che c’è stato, ma che non ci appartiene. Vogliamo scoprire che cos’hanno da dirci, ma questo ci spaventa perché riescono a mettere in prospettiva la nostra vita.
Che cosa possono insegnare i dinosauri a noi, uomini del XXI secolo?
Nell’archivio del nostro pianeta ci sono tutte le prove per capire il passato: nei fossili e nelle rocce sono «scritti» milioni di anni di cambiamenti e di rivoluzioni. Tutto ciò che è venuto prima di noi dovrebbe essere un esempio. Oggi non riusciamo a concepire un futuro che non ci veda protagonisti. Ma il mondo non è nostro: dovremmo accettarlo, magari imparando a rimpicciolirci un po’. L’uomo non è padrone, ma ospite. Se vogliamo imparare qualcosa dai dinosauri, questo qualcosa deve essere il senso di fragilità: l’estinzione può riguardare anche noi. Anche noi possiamo finire.
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