Probabilmente perché in questa «vicevita», giusto per prendere a prestito il titolo di un altro libro di viaggi, a cui siamo stati seppur momentaneamente costretti a vivere, più o meno rinchiusi in casa, dotati dell’ormai famosa «autocertificazione» – moderno lasciapassare che però ai suoi tempi apriva ben altri confini – pur di uscire dal proprio comune, fatto sta che i libri di viaggio sono come i famosi «profumi» per far rinsavire le persone svenute. Questo di cui stiamo parlando, poi, è un signor libro di viaggio. Che potrebbe starsene degnamente accanto al più famoso Chatwin delle Vie dei canti (parola di Paolo Rumiz, che firma l’introduzione)! Il suo autore, di origini svizzere, Nicolas Bouvier (1929-1998), si mise in viaggio nel 1953, assieme all’amico altrettanto scapestrato e pittore Thierry Vernet, a bordo di una fragile Fiat Topolino, alternandosi sia alla sua guida che a spingerla su per le salite infide del Medio Oriente, perennemente in cerca di qualche contadino, zappa in spalla, per una spintarella o un improbabile meccanico.
I due attraversarono Jugoslavia, Turchia, Iran, Afghanistan, finché Bouvier da solo arrivò fino a Ceylon. Senza interessi antropologici o sociologici, con pochi soldi in tasca, ma con uno sguardo appassionato e curioso, non giudicante, gettandosi a capofitto in ogni situazione umana incrociata lungo la strada (taverne, feste, lavori, chiacchiere, ecc.). Certo, a distanza di oltre mezzo secolo quasi tutto ciò che è raccontato in questo libro è a dir poco «inattuale»: perché non esiste più o perché è cambiato profondamente. Ma rimane intatto il desiderio di divenire sempre più se stessi sfregandosi sulla ruvida diversità del mondo attorno a noi. Lasciando che ogni incontro ci lasci appiccicato qualcosa. Di questo abbiamo nostalgia, noi viaggiatori mancati.
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