La polveriera europea
Il consolidamento dell’asse politico-militare tra le autocrazie di Cina, Russia e Corea del Nord ha ridisegnato le aree d’influenza della geopolitica e lanciato una sfida agli Stati Uniti e all’Occidente messi sempre più all’angolo in un mondo multipolare; con l’Europa in mezzo al guado a interrogarsi su quale sarà il suo destino alla luce dell’annunciato disimpegno degli Stati Uniti sullo scacchiere euro-mediterraneo, mentre lo sguardo di Trump è concentrato sul Medio Oriente e sull’Indo-Pacifico.
Ne parliamo con Elio Calcagno, ricercatore del programma «Difesa, sicurezza e spazio» dello IAI (Istituto Affari Internazionali) per il quale si occupa degli aspetti industriali, strategici, operativi e di politica della difesa a livello nazionale, europeo e Nato (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord): l’alleanza militare che comprende 32 Stati (30 europei oltre a Stati Uniti e Canada).
Msa. Dottor Calcagno, il recente summit di Tianjin e l’esibizione muscolare delle forze armate cinesi alla parata militare della Vittoria in piazza Tienanmen, a Pechino, sono legate da un’unica tattica?
Calcagno. Credo che le due cose non siano esclusive. Sicuramente c’è la volontà di dimostrare un’unità e un fronte comune, e potrebbe rappresentare una spina nel fianco per gli Stati Uniti e per l’intero Occidente. Nel caso della Russia e della Cina, Mosca si è consegnata a Pechino dopo il fallimento iniziale dell’invasione dell’Ucraina. E, in un certo senso, per Pechino la sopravvivenza del presidente russo Putin e del suo regime è fondamentale per controbilanciare l’egemonia americana, ma anche per salvaguardare i propri interessi di sicurezza. La Russia è sempre più dipendente dalla Cina dal punto di vista economico, tecnologico e diplomatico. Mentre la Cina è già diventata il partner commerciale principale per una Russia che è sempre più isolata in Europa e in Occidente. Tuttavia, dal punto di vista europeo c’è un’altra questione: la Russia con le sue pulsioni aggressive in Europa, che si sono già manifestate in Ucraina, obbliga gli Stati Uniti a mantenere alto il livello di attenzione e di impegno militare in Europa, e questo a discapito della sua presenza nell’Indo-Pacifico. E quindi, da una prospettiva cinese, sostenere la Russia e aiutarla a continuare questa guerra e renderla sempre più lunga è sicuramente utilissimo dal punto di vista strategico per la Cina perché distoglie l’attenzione degli Stati Uniti dall’Indo-Pacifico. Questa cosa non nasce certo con l’amministrazione Trump. Poi c’è la Corea del Nord, un Paese citato spesso insieme a Russia e Cina. Lo «Stato eremita» è una mina vagante, però ha dato un aiuto concreto a Mosca nella guerra contro l’Ucraina: ha fornito soldati e munizioni per l’artiglieria della Russia.
La guerra in Ucraina ha dimostrato che la vecchia strategia dei carri armati, dell’artiglieria e delle armi pesanti è superata. Oggi contano velocità e astuzia. L’uso massiccio dei più economici droni e dell’intelligenza artificiale sembra il vero asso nella manica per una difesa moderna. Eppure, l’Europa che si riarma pensa principalmente ai costosissismi carri armati e all’artiglieria, alle navi da guerra e agli aerei da combattimento. Perché?
Carri armati, artiglieria, navi e aerei da combattimento sono sistemi molto costosi e dunque sono molto remunerativi per l’industria degli armamenti. Va detto che l’industria europea è in molti casi tra i leader nel mercato, a livello globale, in questi sistemi d’arma, e quindi non sarebbe necessariamente facile o veloce cambiare le proprie priorità dall’oggi al domani. C’è stato un aumento della spesa militare in Europa, in certi Paesi più che in altri. Ma questo incremento della spesa, in molti casi non è ancora comparabile con quella che si sosteneva nel periodo della guerra fredda. Mentre le forze armate europee cercano di rimpinguare le scorte di munizioni e di ricostituire le proprie capacità nelle armi convenzionali, non è sempre facile per i vari Paesi investire sulle capacità che abbiamo visto in azione con i droni e con l’intelligenza artificiale; capacità nelle quali, peraltro, a livello tecnologico siamo estremamente indietro se pensiamo all’abilità di produrli su larga scala e in poco tempo. Sulla questione dei carri armati, la guerra in Ucraina non credo ci insegni necessariamente che le armi convenzionali sono obsolete, ma ci dice sicuramente che in questa guerra quei mezzi tradizionali hanno avuto grosse difficoltà.
Però anche la Russia, seppure con i suoi droni e i suoi missili, continua ad arrancare in Ucraina.
C’è da fare qualche distinguo: la Russia non è stata capace di usare i mezzi tradizionali in modo massiccio e coordinato all’inizio della guerra come detterebbe invece la dottrina della Nato, e non è mai stata in grado di controllare i cieli per dare supporto ai mezzi terrestri come i carri armati. E questo anche perché la Russia non è dotata di aerei da combattimento avanzati come quelli della Nato. Quindi non è detto che pur dotate degli stessi sistemi, la Russia e l’Ucraina avrebbero avuto le stesse difficoltà. C’è da dire che le difese aeree sono sempre più efficaci. In questo contesto, la Nato, e l’Italia stessa, sono dotate di aerei F-35 a bassa visibilità ai radar, e probabilmente avrebbero qualche possibilità in più. Comunque questo è tutto da verificare, e speriamo di non doverlo vedere mai. L’artiglieria, invece, è una risorsa considerata da tanti obsoleta, soprattutto in Europa, poiché si vanno a favorire capacità più avanzate come i bombardamenti di precisione degli aerei. Però abbiamo visto in Ucraina, soprattutto all’inizio, che c’è bisogno di erogare un grande volume di fuoco proprio per ovviare alla difficoltà di manovrare con le truppe a terra. Le capacità dei droni di terra ma anche di quelli aerei potrebbero trasformare mezzi che sono adesso vulnerabili, come i carri armati, i cannoni e i mezzi aerei, in mezzi più agili e spendibili perché non hanno a bordo esseri umani. Se abbiamo visto che in Ucraina sono stati usati mezzi obsoleti, dobbiamo comunque pensare che la Nato combatterebbe in modo diverso, e avrebbe strumenti molto più avanzati di cui la Russia non dispone; mezzi che l’Ucraina non ha avuto a disposizione nei primi mesi di guerra, e che le sono stati donati dai Paesi occidentali con il contagocce, e molto spesso troppo tardi per poter fare un’effettiva differenza sul campo di battaglia.
Alcuni osservatori sostengono che, se la Russia in tre anni non è stata in grado di espugnare l’Ucraina, ma di conquistare solo parti di alcuni oblast (province) al prezzo di decine di migliaia di soldati russi morti, è molto difficile che, nelle condizioni in cui si trova il suo esercito, Mosca possa attaccare la Nato. Lei che ne pensa?
L’obiettivo della Russia non è, e non può essere, quello di conquistare l’Europa o sconfiggere tutta la Nato e l’Europa sul campo di battaglia. Il primo obiettivo è quello di dividere la Nato politicamente e di neutralizzare in questo modo la sua capacità di attuare una risposta coesa. La Nato ha impedito alla Russia post-sovietica di ricostituire quella bolla d’influenza che l’ex Unione Sovietica si era costruita prima e durante la guerra fredda. E in quest’ottica credo che sia assolutamente plausibile che la Russia voglia puntare ad attacchi che sono localizzati, preferibilmente a sorpresa, e magari di natura ibrida, e quindi nella zona grigia tra guerra e pace. Sono attacchi difficili da identificare e da attribuire. Per questo non è sempre facile capire come rispondere. È una tattica che potrebbe essere messa in campo per seminare il caos nell’Alleanza atlantica. Il punto d’arrivo può essere proprio un attacco che magari sfrutti il pretesto della presenza delle minoranze russofone in uno dei Paesi Baltici. Questa tattica l’abbiamo già vista perché è stata usata dalla Russia in Georgia nel 2008, in Crimea nel 2014, e poi in Ucraina nel 2022. Un attacco del genere potrebbe porre la Nato davanti a un fatto compiuto. E lì poi bisognerebbe vedere quali Paesi della Nato avrebbero la forza di rispondere e con che tipo di forze poiché l’articolo 5 del Trattato della Nato che disciplina la mutua assistenza tra gli Stati, se sono attaccati, prevede che i Paesi facciano quello che possono per assistere un alleato. Ma l’articolo 5 non mette sulla carta quale tipo di capacità e quante forze devono essere messe a disposizione, salvo quelle già impegnate nel consesso dei comandi della Nato, per affrontare un conflitto contro la Russia; e questo diventa tanto più importante se gli Stati Uniti dovessero chiamarsi fuori, e dovessero continuare su una linea di ambiguità come in realtà stanno facendo negli ultimi tempi.
Trump ha promesso di sostenere la Polonia nel caso in cui fosse attaccata dalla Russia, ma tace sui Paesi Baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), che sarebbero probabilmente i primi ad essere attaccati in un ipotetico scenario di guerra.
L’atto ostile, come definito dalle norme in ambito internazionale, è quello di violare di proposito, con aerei da combattimento, lo spazio aereo di un altro Paese, e quindi è un po’ sui generis quello che succede oggi nella Nato, anche se non è una cosa nuova, e cioè che la Nato non risponda a queste violazioni dello spazio aereo come farebbero invece altri Paesi. L’esempio lampante viene dalla Turchia, pur essendo essa un membro della Nato. Nel 2015, dopo la violazione dello spazio aereo turco da parte di due aerei da combattimento russi, nonostante inascoltati appelli dei turchi ad abbandonare il loro spazio aereo, uno dei due aerei russi fu abbattuto. Putin ed Erdogan si incontrarono e trovarono un accordo. Quindi oggi la reazione della Nato è forse anormale rispetto a quello che succederebbe in altri contesti. Tendenzialmente, a queste provocazioni, come abbiamo già visto nel caso dell’Estonia, la Nato ha risposto con lo scramble (l’intervento, ndr) di aerei da combattimento, in questo caso gli F-35 italiani, che hanno intercettato gli aerei russi e li hanno accompagnati fuori dallo spazio aereo della Nato. C’è stato un comunicato ufficiale della Nato e qualche post sui social media, però vorrei ricordare che il primo atto ostile è quello della violazione dello spazio aereo di un altro Stato poiché non è mai certo se queste violazioni sono semplici provocazioni o se un giorno sfoceranno in un vero e proprio attacco convenzionale.
Qual è l'obiettivo della Russia?
Quello che la Russia sta facendo è, prima di tutto, testare i tempi di reazione della Nato, e questo lo fa da tantissimi anni, però io sono convinto che stiano anche testando la capacità della Nato di rimanere compatta perché l’Alleanza atlantica conta più di 30 alleati, politicamente e culturalmente molto diversi tra loro, e non è detto che tutti sarebbero d’accordo per una risposta militare più «normale» secondo alcuni Paesi, e cioè neutralizzando la minaccia di una violazione dello spazio aereo. E quindi la Nato è costretta a rispondere con un minimo comune denominatore, come abbiamo visto nel caso delle incursioni in Estonia e in altri casi in passato. L’ambiguità del presidente americano Trump verso i Paesi baltici è una vera spina nel fianco della Nato, ma anche della credibilità e della deterrenza nei confronti di quella che potrebbe essere un’aggressione da parte della Russia. Davanti a quello che è sicuramente un tentativo di disimpegno da parte degli Stati Uniti verso l’Europa, iniziato non con Trump, ma già dai tempi dell’amministrazione Obama, l’attuale presidente americano sembra voler accelerare questo processo, ma viene sempre risucchiato nel vortice delle tensioni in Europa.
La strategia della Russia di invadere gli spazi aerei della Nato con velivoli militari e droni ricorda quella cinese della «rana bollita». Questo spingere avanti progressivamente la provocazione, come la temperatura dell’acqua di una pentola in cui si trova una rana, fino al punto in cui si è messi davanti al fatto compiuto, e non si è più in grado di sottrarsi alla situazione.
Normalizzando questo tipo di provocazioni della Russia, la Nato rischia di rendere qualsiasi risposta futura facilmente identificabile come una sua provocazione. Gran parte dell’elettorato e dell’opinione pubblica in Italia o è indifferente alle istanze della Nato o è addirittura ostile. Secondo i dati di un sondaggio di un’organizzazione tedesca, la Friedrich Ebert Stiftung, quello italiano è uno dei popoli dei Paesi Nato che più di altri crede all’immediatezza di un conflitto generalizzato e su larga scala, e allo stesso tempo è fra quelli che più di tutti pensano che bisogna diminuire la spesa militare proprio per evitare l’esito che paventa. E quindi non necessariamente la paura o il rischio percepito che possano accadere incidenti, come l’abbattimento accidentale di un aereo civile da parte di un drone o di un missile (sui cieli del Donetsk, nell’Ucraina orientale, nel 2014, i separatisti filorussi abbatterono con un missile un Boeing 777 della Malaysia Airlines causando la morte di 298 persone, ndr) porta a una compattezza politica della Nato, o all’interno dei suoi alleati, e a un sostegno a quella che potrebbe essere la politica di risposta della Nato. Se ci dovesse essere un incidente a un velivolo civile, certo è che, come abbiamo visto con lo sconfinamento dei droni russi entrati nello spazio aereo della Polonia, ci sarebbe uno sforzo enorme sui media e sui social media, soprattutto sugli account social pro-Cremlino, per cercare di attribuire ad altri la responsabilità, o come nel caso dei droni finiti in Polonia, di diffondere la versione russa secondo la quale i droni sono stati mandati addirittura dall’Ucraina oppure che i droni russi sono finiti fuori rotta a causa di jamming elettronico (interferenza intenzionale di segnali radio o di altre onde elettromagnetiche, ndr).
L'arma della propaganda è subdola quanto pericolosa.
In fatto di propaganda la Russia è molto esperta, e sono anni che contamina il nostro dibattito pubblico con informazioni false, con tutto e il contrario di tutto; cioè una disinformazione che non favorisce solo una delle narrazioni, ma ne alimenta diverse e contrastanti tra loro, e che piano piano seminano divisioni all’interno degli elettorati e rendono i governi democratici sempre più impotenti o comunque più cauti nel cercare di rispondere a determinate minacce senza sembrare provocatori, in questo caso nei confronti della Russia. Quindi sì, può verificarsi lo scenario della «rana bollita», cioè quello per cui si normalizza questo tipo di provocazioni, e quando si deciderà di rispondere, una buona fetta dei cittadini dei vari Paesi della Nato penserà che qualsiasi risposta da parte nostra sarebbe una provocazione. Questo atteggiamento si vede già nella questione della percezione dell’allargamento della Nato nei decenni successivi alla fine della guerra fredda. I Paesi baltici o la Polonia hanno letteralmente supplicato la Nato di accoglierli proprio per proteggersi dalla minaccia russa che loro conoscono bene e sanno essere immediata. Eppure girando per i Paesi dell’Alleanza atlantica, tantissime persone non la vedono così, e credono alla narrazione filo-russa secondo la quale quest’allargamento a est della Nato è stato una provocazione occidentale, addirittura la causa della guerra in Ucraina e probabilmente di altre guerre che potrebbero scoppiare in futuro.
Con i soldati e i mezzi militari di cui la Nato dispone, quanto resisterebbe, senza gli Stati Uniti, a un attacco dal fronte orientale, anche ibrido, eventualmente congiunto, da parte di Russia e Bielorussia?
È una previsione abbastanza complessa perché questo tipo di conflitti lo sono sempre. Ad oggi possiamo dire che la Nato ha ancora un nettissimo vantaggio tecnologico sulla Russia, però questo vantaggio è osservabile principalmente nel campo di quelle piattaforme avanzate come cacciabombardieri, carri armati, artiglieria missilistica, seppure con dei distinguo: la Russia, per esempio, ha già integrato i droni nelle sue forze terrestri. L’industria bellica russa è capace di sfornare decine di migliaia di droni ogni settimana, e abbiamo visto quanto l’uso massiccio di questi droni, che non sono necessariamente avanzati sul piano tecnologico, sia stato utilissimo in Ucraina per entrambe le parti in guerra, sia per la ricognizione e l’identificazione dei bersagli, sia per attaccare e colpire mezzi e personale militare. I Paesi della Nato non hanno investito molto nella produzione di questo tipo di tecnologia. Sappiamo che questa tecnologia arriva tendenzialmente dalla Cina. I sistemi che gli ucraini producono – si parla di più di 10 milioni di droni all’anno – sono basati su tecnologie spesso cinesi adattate alle necessità delle forze armate ucraine. L’Europa invece ha investito pochissimo su questo tipo di capacità e pochissimo sull’intelligenza artificiale quindi possiamo dire che, se la Nato è ancora molto più avanzata sul piano tecnologico-militare in quelle che definiamo capacità militari convenzionali, invece su quelle più dirompenti è ancora molto indietro.
Cosa accadrebbe allora in caso di conflitto?
Possiamo immaginare che in caso di conflitto fra Nato e Russia, la Nato godrebbe, come durante la guerra fredda, di una superiorità aerea abbastanza schiacciante nelle prime fasi dell’eventuale conflitto, soprattutto grazie alle capacità stealth, cioè di bassa identificazione ai radar nemici dei velivoli militari, come gli F-35. Ma gli Stati Uniti hanno mezzi anche più potenti, come i bombardieri strategici che sarebbero in grado di penetrare le difese russe. Quello che non è certo è che la Nato possa sostenere questo tipo di sforzo bellico a lungo poiché, prima di tutto, la Russia ha già trasformato la sua economia in economia di guerra, e dunque dedica una grande parte della propria produzione industriale alla realizzazione di armi, mezzi, approvvigionamenti, ecc. Invece l’industria occidentale ha un’economia di pace e dunque non è chiaro quanto velocemente e fino a che punto potrebbe adattarsi a un eventuale conflitto senza precedenti rispetto a quello degli anni Quaranta del secolo scorso. Un’altra questione cruciale è l’unità politica della Nato dato che l’attuale ambiguità americana potrebbe seminare il panico all’interno dell’Alleanza atlantica in caso di un vero attacco convenzionale russo su larga scala. Se gli Stati Uniti non dovessero dimostrare fin dal primo minuto di essere assolutamente impegnati nella difesa del continente, è chiaro che alcuni Paesi della Nato potrebbero non scendere in campo oppure potrebbero entrare in campo in modo limitato per cercare di capire, nel frattempo, che aria tira.
Quali conseguenze potrebbe avere questa ambiguità?
Questa incertezza sarebbe dannosissima sul piano militare. Ricordo che la Nato raccoglie più di 30 alleati, ma pochi di questi hanno reali capacità militari su larga scala e tecnologicamente avanzate. Passiamo da Paesi che hanno a malapena una forza armata a Paesi, come quelli Baltici che magari stanno cercando da diversi anni, nei limiti della loro popolazione, di creare unità militari che possano rientrare in un comando Nato e portare un sostegno concreto ai piani militari dell’Alleanza. È chiaro che, quando parliamo di deterrenza ci riferiamo a un gruppo ristretto di Paesi: Italia, Germania, Polonia, Francia, Gran Bretagna e Spagna. C’è da dire che da un punto di vista europeo, tutti i Paesi tendono a investire sul ventaglio interno delle loro capacità: dalle forze aeree a quelle navali e terrestri, però la Russia è un unico Paese per cui ha un impatto di un certo tipo mentre noi europei siamo separati. Ogni Paese ha i propri approcci alla difesa. C’è una dottrina Nato, però permangono differenze culturali tra i membri dell’Alleanza; c’è una moltiplicazione degli sforzi, una grande varietà di mezzi: non tutti i Paesi hanno gli stessi carri armati, gli stessi cannoni, le stesse munizioni e gli stessi aerei. E, in un certo senso, rischiamo insieme di ammontare complessivamente a meno della somma delle parti. Già ai tempi della guerra fredda, quando la Nato era una forza formidabile, e lo era anche l’Unione Sovietica rispetto alla Russia di oggi, c’era una forte consapevolezza, da parte della Nato, che l’Alleanza atlantica non sarebbe stata in grado di resistere a un assalto sovietico per più di qualche settimana. C’era la consapevolezza che non sarebbero bastate le munizioni e che soprattutto non sarebbero bastati i soldati sebbene all’epoca ci fosse già una superiorità tecnologica della Nato. Oggi la più grande preoccupazione è questa: quanto a lungo la Nato può sostenere uno sforzo bellico del genere di fronte alle opinioni pubbliche di più di 30 Paesi diversi che potrebbero non voler sostenere per più qualche mese o per pochissimi anni questo tipo di sforzo?
Esaurita la deterrenza convenzionale, si agita sempre lo spettro delle armi nucleari. Si è parlato molto, negli ultimi mesi, del fatto che nel secondo dopoguerra l’Europa si è giovata della deterrenza nucleare degli Stati Uniti, ma che con i passi indietro di Trump ora l'Europa deve arrangiarsi. L’arsenale nucleare messo a disposizione da Gran Bretagna e Francia è sufficiente a costituire una nuova efficace deterrenza nei confronti della Russia?
Secondo me no. Al di là dei numeri – perché Gran Bretagna e Francia possono mettere in campo qualche centinaio di testate nucleari mentre per gli Stati Uniti e la Russia parliamo di alcune migliaia – la differenza principale è che l’ombrello nucleare degli Stati Uniti è integrato in quello della Nato. Dentro l’Alleanza atlantica esiste un gruppo di pianificazione nucleare al quale partecipano i Paesi e attraverso il quale si può generare anche una dottrina sull’uso delle armi nucleari. Questa dottrina è importantissima perché un Paese può decidere di escludere a priori il primo uso delle armi nucleari. Altri invece potrebbero restare ambigui proprio per far capire al potenziale nemico che non si esclude nessuna opzione. L’utilità delle armi nucleari non dipende tanto dal piano puramente militare – dato che, con il loro uso, non ne uscirebbe vincitore nessuno –, quanto piuttosto da un’ottica di deterrenza: «stai attento ad attaccarmi perché tu avversario non sai come io posso rispondere». E questo è anche il motivo per cui dal 1945 in poi, cioè dalla fine della Seconda guerra mondiale, non abbiamo mai visto un vero conflitto tra potenze nel continente europeo. Purtroppo, paradossalmente, le conseguenze di un errore di calcolo, sappiamo benissimo quali possono essere. Quindi l’arsenale nucleare messo in campo da Gran Bretagna e Francia potrebbe basarsi su qualche trattato, su qualche rassicurazione politica verso gli altri alleati, però non ha la stessa credibilità dell’arsenale americano tanto che gli Stati Uniti, attraverso la Nato, mettono a disposizione di Paesi come l’Italia o la Germania un numero di testate nucleari tattiche che possono essere operate dai Paesi alleati.
Quindi dovremmo rimanere sempre sotto la tutela degli Stati Uniti?
Solo un Paese della dimensione economica, demografica, ma anche del peso politico internazionale degli Stati Uniti può creare questo tipo di ombrello nucleare. La Francia negli anni è quella che più ha parlato di estendere il proprio ombrello nucleare anche agli alleati, ma non ha la credibilità politica degli Stati Uniti, quanto piuttosto l’ambizione di rappresentarsi come il Paese leader, anche militare, dell’Unione europea. Ma certi Paesi non sono così pronti ad accettare questo ruolo della Francia. E quindi, molto spesso, questo tipo di offerte restano confinate nell’ambito della politica e della diplomazia. In realtà, senza l’ombrello nucleare americano sull’Unione europea, rischiamo veramente uno sfaldamento della Nato, ma anche l’abilità dei Paesi europei di lavorare insieme come invece hanno fatto negli ultimi settant’anni, dopo secoli di guerre fratricide e di spargimenti di sangue.
Che senso ha investire miliardi di euro nella costruzione di navi e aerei da guerra, di cannoni e carri armati, quando basta una mezza dozzina di testate nucleari lanciate contro le capitali europee per mettere la parola fine alla guerra mentre gli oligarchi russi potrebbero rifugiarsi in un qualsiasi bunker della sterminata Russia e continuare il conflitto?
Io distinguerei tra le testate nucleari tattiche progettate proprio per avere un minimo effetto in termini di radiazioni e di raggio dell’esplosione. Ovviamente dipende da quanti missili vengono lanciati. Ci sono tantissimi tipi di testate tattiche. La questione della deterrenza nucleare è legata soprattutto alle testate strategiche, cioè quelle costruite per distruggere intere città e regioni: questo tipo di conflitto porterebbe alla distruzione dell’umanità senza nessuno vincitore. Se sapessimo che nessuno è così pazzo da usarle, allora verrebbe meno il ruolo della deterrenza perché la Russia potrebbe decidere di invadere l’Europa ritenendo che in fondo gli Stati Uniti e gli altri Paesi non sarebbero così pazzi da usare le loro centinaia o migliaia di testate nucleari. Io credo che questa ambiguità resti. Putin e i suoi sodali lanciano quasi quotidianamente le loro minacce nucleari dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. E questo ha effetti diversi su Paesi diversi. In Italia lo sappiamo, ha un effetto e una risonanza mediatica molto forte. E credo che alla fine sia proprio questo tipo di ambiguità che rende la deterrenza nucleare ancora attuale. Dovesse venire meno, e cioè se ci fosse la certezza che le armi nucleari non saranno mai usate, allora torneremmo a una probabilità più alta di affrontare una guerra con armi convenzionali tra grandi potenze.