La tunica bianca di Maria
Mi ha colpito di recente un singolare dipinto, in una chiesa antica della mia diocesi, nella parrocchia di San Martino, borgata di Castelpetroso. Rappresenta Maria ai piedi della croce. La singolarità dell’opera sta nel fatto che, pur se attorniata da persone in abiti nerissimi, Maria è rappresentata con una lunga tunica bianca sia mentre «sta ritta» ai piedi della croce sia mentre abbraccia, con tenerezza dolcissima, il suo amato figlio Gesù, deposto nel sepolcro. Ho visto in quell’abito bianco tutta la fede di Maria, Mater dolorosa e insieme Virgo gloriosa. Lacrime amare e fermezza nella fede del Risorto, che il colore bianco esprime con particolare evidenza.
Il 7 aprile ricorrono venticinque anni dalla mia ordinazione vescovile. La lettera del Nunzio mi era giunta già in gennaio, il 12, anniversario della morte di mio papà Germano, mentre mi trovavo a Bari. Ne fui sconvolto. Mi ammalai, nella fase del discernimento. Poi, un consiglio decisivo. Me lo diede monsignor Mariano Magrassi, arcivescovo dell’operosa città pugliese. Mi suggerì un criterio, validissimo sempre: «Obbedisci – mi disse – è il Papa che te lo chiede. E al Papa non si può dire di no! E poi, sappi che, se tu obbedirai, avrai una strada sempre più in salita. Ma non sarai mai solo, per la presenza di Gesù. Se invece, per paura, non accetti, resterai solo!».
Mille volte ho valorizzato quel consiglio davanti alle titubanze di seminaristi o di preti. La vita premia chi ha coraggio. Nelle lacrime del Calvario, spesso affrontate, ho sempre guardato a Maria ai piedi della croce, ma già vestita di bianco, perché aperta alla risurrezione. La consacrazione avvenne a Crotone. Era subito dopo la Pasqua e la liturgia profumava di crisma. Il vescovo, ungendo il mio capo, me ne versò in abbondanza. Il crisma mi scese fin sulla barba, la barba della fraternità (Salmo 132), simbolo di una comunione sempre da custodire. Da allora in poi, ho sempre cercato di avere mitezza e fiducia, anche davanti a «preti difficili».
La Locride fu generosa con me. Mi vollero subito bene, perché, pur se accolto a Gerace, il mese dopo, da una finta bomba, non ne feci un dramma. Anzi, li scusai, liberando quella terra da una scontata immagine di male. E capii concretamente che il gusto della bellezza è la miglior forma di antimafia! E quella terra ferita iniziò a fiorire. Di sera, nelle cucine delle famiglie, si cominciò tutti insieme a leggere i testi biblici. Erano i «cenacoli del Vangelo», come li chiamava il beato Pino Puglisi, in Sicilia. Cenacoli, perché permettevano di avvertire la brezza dello Spirito e la tenerezza di Maria che accoglie i discepoli smarriti. E poi venne un’altra obbedienza, più difficile della prima: lasciare la Calabria per conoscere e amare il Molise.
Vette nevose, come in Trentino; gente mite e buona; nessuno spazio alla mafia. Ma quanta necessità di speranza, davanti a lacrime giovanili di precarietà lavorativa! E poi venne anche papa Francesco. Della sua visita a Campobasso ricordo l’immagine che lasciò ai nostri ragazzi: il filo della solidarietà, come unica luce per uscire dal labirinto in cui vivono. Rende bene la realtà della vita, complessa e intricata ma che riserva sempre vie d’uscita. Anche il Molise fiorisce. E quanti racconti di benedizione ha saputo accogliere questa rivista antoniana!
La pietà popolare mi ha sempre accompagnato, sia in Calabria che in Molise. E anch’io, come vescovo, mi sento «convertito» dalla mia gente, poiché cammino con loro come pellegrino, fortificato da loro come credente, faro luminoso per loro come guida. Con la gente, dalla gente e per la gente. Così sento di poter dire il mio grazie a Colui che mi ha fatto scoprire le «ferite» nel Cristo risorto, perché anch’io, come l’apostolo Tommaso, possa dire: «Dominus meus et Deus meus!». Solo così saranno non più ferite di sangue, ma feritoie di grazia!
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