Abitiamo in via… crucis
Un’altra Quaresima, l’ennesima – anzi, per l’esattezza, è ormai la cinquantaquattresima per me – si sta materializzando all’orizzonte. I motivi per colorare di viola cupo gli abiti liturgici e gli arredi delle nostre chiese tanto quanto, a dire la verità, sentimenti, paure e persino speranza – virtù, di per sé, allergica a questo colore – non mancano di certo.
Ci sembra del tutto ovvio, agli occhi dei nostri pensieri tristi, togliere l’alleluia dal canto della Messa: ché, visti i tempi che corrono e cosa sta capitando a tanti nostri fratelli e sorelle, vicino a noi e qua e là per il mondo, parrebbe quasi blasfemo intonarlo. Mi sento pure un tantino imbarazzato a stare qui ad arrovellarmi il cervello per escogitare qualche segno penitenziale: «fioretti» si chiamavano una volta per infiorettare questo tempo di penitenza e digiuno, a norma dei sacri canoni.
Mia sorella anziana in casa di riposo, mio fratello rom, mio fratello migrante, mia sorella malata terminale, mio fratello perseguitato a causa della sua diversità o della sua fede religiosa o del suo credo politico, mia sorella che tende inutilmente la mano per ricevere anche solo quanto le spetterebbe, mio confratello sacerdote solo, stanco ma non arreso, mio fratello e mia sorella che non sanno amare, mia madre abbandonata, mio padre senza lavoro, mio figlio senza i genitori, mia figlia morta sotto le bombe senza nemmeno sapere il perché, mia moglie con i lividi in faccia, mio marito che scambia l’amore col possesso, beh, a differenza mia, non devono neanche cercare molto in là.
Chiariamo: non è che tutte queste tragedie mi disimpegnino. Anzi, mi costringerebbero a un rigore e a una verità che, purtroppo, ancora non mi appartengono. E le cose fatte solo per farle, durano al massimo fino al giro di boa di mezza Quaresima. Lo ammetto, anche molto prima. Ma io vorrei arrivarci fino in fondo a questi quaranta benedetti giorni, e possibilmente senza vergognarmene. Mi sa, allora, che è tutta questione di indirizzo anagrafico spirituale. Dipende da dove penso di abitare. O di trasferirmi. Perché, come si suol dire: dimmi dove abiti e ti dirò chi sei. No, non è vero, questo non lo dice nessuno. Ma, senz’altro, è vero il contrario: dimmi chi sei, e ti dirò dove abiti.
Mi piacerebbe davvero che la mia vita, che poi vuol dire le mie scelte di ogni giorno, il mio stile, le mie frequentazioni, ciò a cui affido il senso del mio camminare, cadere e rialzarmi, il compimento verso cui anelo (ma che mi attendo in dono misericordioso), gli inevitabili «costi esistenziali» (in fatto di rinunce, essenzialità, scelte di campo, ecc.) di cui mi assumo gli oneri, le mie passioni e talvolta indignazioni, i miei sogni e le mie fatiche, e finanche i miei insuccessi, beh mi piacerebbe che tutto questo dicesse al mondo intero che io vivo in via… crucis. Anzi, vi convivo. Con una moltitudine di gente, quasi fossimo in un barcone della speranza, una sorta di armata Brancaleone o una comune hippy: poveracci e peccatori di tutte le specie, buoni solo a formare i privilegiati alle porte del Paradiso; quelli che, scandalosamente, precederanno tutti gli altri (Mt 21,31).
Con Dio conviviamo. Lui che ha scelto questa stessa via, questo stesso quartiere malfamato nei sobborghi dell’opulenza e dell’egoismo. Stiamo qui impazienti. In attesa di essere tutti sloggiati, con la forza dell’amore che tutto può, il mattino di Pasqua. Certi che, stavolta, non troveremo né fili spinati né cordoni di polizia a fermarci. Ah, e il numero anagrafico a cui trovarci? Beh, dipende. Dipende dalla stazione della via crucis in cui stiamo sostando in questo momento.…