L’archeologo dei grani antichi
Tre spighe di numero svettano accanto a un muretto a secco in un campo abbandonato. La vecchia masseria è immersa nel sole giallo del Salento. Intorno, il silenzio è tutto un frinire di cicale. Un ragazzo si china a carezzare le spighe lentamente; è emozionato, come avesse trovato un tesoro. È il 2012, Ercole Maggio ha 24 anni, una laurea nuova di zecca in Marketing e comunicazione alla Sapienza di Roma e un amore viscerale per i grani antichi: «Sapevo che era una pianta secolare, ma ho capito solo in seguito che si trattava di carosella, una specie che risale probabilmente all’impero romano – racconta –. Era arrivata nelle mie mani, dopo quasi 100 anni che nessuno la coltivava più, morendo e rinascendo da se stessa, anno dopo anno», una sopravvissuta alle riforme agrarie, ai semi migliorati e ai prodotti chimici della modernità.
Ercole è un talento di famiglia. I suoi possiedono un mulino a pietra a Poggiardo, nel leccese. Da sempre è cresciuto al ritmo dei campi. «A 10 anni, nel giorno del mio compleanno, piantai in asso tutti gli invitati perché nonno iniziava la trebbiatura» racconta divertito. Neppure gli studi a Roma l’hanno distratto dalla sua passione per la botanica. Mamma già lo vedeva dietro una scrivania e invece lui torna a casa, per giunta con questo pallino dei grani antichi. Papà e nonno sono scettici, ma lo lasciano fare. E lui comincia la sua caccia ai semi persi del Salento, come un cercatore d’oro in un fiume ormai avaro di frammenti preziosi. S’informa dagli anziani, gli unici che ancora ricordino dove i padri coltivavano il gentil rosso, la capinera o il grano del miracolo, quello che ha sette spighe in un solo stelo, menzionato persino dalla Bibbia.
A caccia dei grani antichi
Le tre spighe trovate al muretto, accanto alla masseria, sono tra i primi frammenti d’oro nel suo setaccio di ricercatore. Ercole estrae i chicchi lentamente, sfregando le spighe tra le dita in un gesto antico: «Da quei pochi semi, piantati a più riprese, arrivai ad averne una quantità sufficiente per un primo piccolo raccolto. È un lavoro duro, di pazienza, che se non hai passione non puoi fare».
Presto Ercole affina la ricerca. Ai sopralluoghi nei campi abbandonati affianca un’altra modalità: «Notavo che nei lotti di sementi locali che compravamo per la nostra produzione, c’erano alcuni chicchi che differivano dagli altri. Più rossi. Più tozzi. Nei tempi morti, li raccoglievo uno a uno». Inizia a coltivarli, Ercole. Li osserva mentre crescono. L’unica certezza è che si tratta di grano. Ma quale grano? Lo mostra agli esperti del Cnr, ma niente. Va allora da altri esperti: un gruppo affiatato, in là negli anni, che si riunisce al calar del sole, nella piccola piazza del paese. Mostra i semi rossi a questo «consiglio degli anziani», in gran parte ex contadini. La risposta è lapidaria: «È maiorca», un grano tenero spagnolo portato dai Borboni, durante il Regno delle Due Sicilie. La rivelazione non convince affatto gli agricoltori moderni della zona: «Grano tenero, in Salento? Figuriamoci!».
Ercole non demorde. È abituato a setacciare la verità dei semi. Scopre anzi che, prima della riforma agraria fascista, i due terzi dei terreni salentini erano coltivati a grano tenero. Lo conferma un vecchio volume, datato 1882: L’Enciclopedia agraria italiana, di Gaetano Cantoni, dove sono elencate tutte le varietà di grano presenti all’epoca nel Salento. Si costruisce così il suo metodo di verifica: ogni nuovo seme che rinasce dall’oblio passerà al vaglio degli anziani, degli esperti del Cnr e dei manuali antichi.
La storia scritta nei semi
È tutto pronto per un nuovo passo. Decide di creare quelli che lui chiama «i campi sperimentali», dove semina i suoi grani strani in strisce suddivise e ne cerca di nuovi da campioni di sementi selezionate. In pochi metri quadri rinasce l’arte dei contadini di cento anni prima, come in un quadro di Segantini: la semina a mano, la raccolta con la falce. Ogni striscia viene trebbiata a parte, ventilata con l’uso dei vecchi arnesi.
Il risultato è sorprendente, anno dopo anno risorgono i grani antichi: la capinera, arrivata in Salento tra 1100 e 1300 in seguito all’invasione turca; il saragolla, una varietà ancora più antica che ci riporta all’epoca tardo egizia. Ogni seme è una meraviglia. La storia del Salento è scritta nel grano, passa nel lavoro e nel corpo di decine di generazioni. Non è solo farina e pane buono, è cultura, è socialità, è tradizione.
Il mulino dei Maggio inizia a destare attenzione. Intorno a Ercole, che oggi ha 30 anni, si apre un mondo. I contadini ritornano ad avere un ruolo: dibattono, consigliano, ricordano. La gente viene al mulino in cerca di farina buona, riscopre il profumo del grano, impara che le radici del futuro sono aggrappate alla terra. «Ho cominciato solo per amore, perché sentivo che al nostro mulino mancavano i vecchi grani. La natura è ciò che davvero conta. Era importante per me. Non mi aspettavo nulla».
E invece l’interesse cresce. Il tempo è propizio: la gente è sempre più alla ricerca dei gusti di una volta e delle farine di qualità. C’è anche una questione di salute. L’aumento esponenziale della celiachia, grave allergia al glutine, presente in molti cereali, fa pensare che negli ultimi cinquant’anni qualcosa è andato storto: «La rivoluzione agricola degli anni ’70 ha cambiato la composizione del glutine e i nostri ricettori s’intasano, scatenando l’allergia. Eravamo abituati a grani che coltivavamo da 10 mila anni, ci eravamo evoluti insieme a loro».
Eppure un ritorno al grano antico sembra anacronistico, improponibile, insostenibile dal punto di vista economico. Ercole Maggio non la pensa così: «È vero, si produce di meno: 15, 20, 30 quintali per ettaro, invece dei 40 dei grani moderni. Ma il grano antico è più resistente, ha millenni di evoluzione. Non ha bisogno di concimi e diserbanti, si difende da sé. Non solo. I semi moderni devi ricomprarli ogni anno, i semi antichi li auto-produci, sono migliori e più tollerati, non devastano l’ambiente. A conti fatti, la produttività è simile e i vantaggi sono tanti. E poi questo grano è il “nostro” grano, il frutto delle nostre radici».