Liberi di partire, liberi di restare
Le migrazioni internazionali occupano un posto di sempre maggior rilievo nello scenario mondiale. Si tratta di movimenti consistenti: 200 milioni di individui, il 3% della popolazione mondiale, che vivono al di fuori dello Stato in cui sono nati. Flussi continui di persone che si muovono nella tradizionale direttrice Sud-Nord, ma anche in quella Sud-Sud, cioè all’interno dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo. E così assistiamo a sbarchi di africani e asiatici sulle coste dell’Europa, a tragedie nel Mediterraneo e nell’Atlantico, ad approdi a Lampedusa e alle Isole Canarie, a tentativi di valicare l’alto muro di frontiera che separa l’America del Sud dagli Stati Uniti o all’azzardo di superare il deserto a sud della Libia o quello dell’Arizona. Tutti movimenti di popolo che generano spesso vere e proprie ecatombi nascoste agli occhi delle telecamere: sulle rotte delle migrazioni odierne, le migliaia di vittime annuali sono un grido che dovrebbe imporre una riflessione nuova sul fenomeno. E invece la loro visibilità viene proiettata in maniera spesso drammatica sugli schermi del mondo. I mezzi di comunicazione indugiano a lungo nel darne uno «spettacolo» tragico, con una cronaca di eventi che dovrebbe scuotere la coscienza della comunità internazionale e che rischia, al contrario, di assuefarla.
Un fatto irreversibile
Le migrazioni sono un fatto irreversibile e in continua crescita. Lo dice l’antropologia, attestando il continuo spostamento di persone e popoli fin dagli albori dell’umanità, ma lo sostiene anche l’etnologia quando dimostra che i popoli di origine mista sono la regola e non l’eccezione nella storia degli esseri umani. Già alla fine dell’800, quando in Europa si assistette alla «Grande migrazione» d’Oltreoceano, che riversò nelle Americhe milioni di europei, il vescovo Giovanni Battista Scalabrini parlava di migrazioni come di un fatto naturale. Così infatti le descriveva: «Emigrano i semi sulle ali dei venti, emigrano le piante da continente a continente, emigrano gli uccelli e gli animali, e, più di tutti, emigra l’uomo, ora in forma collettiva, ora in forma isolata (…). Questo ci dice la divina Rivelazione, questo c’insegnano la storia e la biologia moderna. Ed è solo attingendo a questa triplice fonte di verità che potremo desumere le leggi regolatrici del fenomeno migratorio e stabilire i precetti di sapienza pratica che lo debbono disciplinare in tutta la sua ricca varietà di forme». E proprio il vescovo Scalabrini, lo scorso 9 ottobre in piazza San Pietro, è stato proclamato santo con il titolo di «Padre dei Migranti», deputato dunque a proteggere e promuovere figlie e figli che non godono di particolari simpatie, perché giudizi e pregiudizi, rigurgiti e posizioni esecrabili nei confronti degli immigrati lievitano anche in ambienti insospettabili...
Le parole creano le cose
Le parole che Scalabrini utilizza per definire le migrazioni sono poetiche, danno senso e bellezza, orientano la percezione e il giudizio verso un esito positivo allo stesso modo in cui parole denigratorie e di esclusione, discriminatorie e xenofobe, orientano al negativo. Non a caso Come fare cose con le parole è il titolo di un saggio del linguista John Langshaw Austin. Perché le parole, oltre che trasportare idee e concetti, orientano modi di percepire e di costruire la realtà. E possono essere petali che accarezzano o piccole dosi di arsenico che avvelenano. Com’è il caso, ad esempio, della parola «extracomunitario» – ormai entrata nell’uso comune per indicare l’immigrato – o, peggio, della parola «clandestino».
Il primo termine (extracomunitario) viene coniato come sintesi della dizione corretta «Cittadino non appartenente alla comunità europea»: poteva mantenere un qualche senso finché l’Europa era «Comunità europea», ma con il passaggio all’«Unione europea» ha perso ogni aggancio concreto. La cosa grave è che nel suo conio non è stato mantenuto il termine «cittadino», ma solo il prefisso escludente «extra», con il risultato che l’immigrato è da esso descritto come un non cittadino «fuori della comunità». Si ravvede chiaramente l’uso malefico del termine quando esso viene utilizzato nel contesto ecclesiale, luogo in cui si usa ancora la parola «comunità» per riferirsi alla famiglia dei battezzati. Ora, se si pensa che più della metà dei 5 milioni di immigrati presenti in Italia sono cristiani battezzati, e che dunque fanno parte «di diritto» della comunità cristiana, si può ben capire l’insensatezza di definirli «extracomunitari», cioè «fuori della comunità».
La seconda parola (clandestino) sta invece a indicare una persona che non è in possesso dei documenti idonei per risiedere regolarmente in un territorio nazionale (in altri contesti viene indicato come «indocumentato»), ma in Italia il gergo populista definisce «clandestini» sia coloro che valicano le frontiere terrestri e marine per chiedere protezione umanitaria e rifugio, sia coloro che si trattengono nel territorio italiano dopo la scadenza del proprio permesso di soggiorno. È una parola sbagliata, che non trova spazio nella giurisprudenza, ma che ha l’effetto di evocare l’immagine di una persona losca e pericolosa, o di una non-persona. Facciamo attenzione, dunque, agli «imprenditori della paura», che utilizzano le parole in modo strumentale, cioè usandole non per il loro significato, ma per gli stati d’animo che esse scatenano nelle persone che le ascoltano.
Diritto delle migrazioni
Più di un secolo fa Scalabrini sottolineava due semplici diritti basilari in tema di migrazioni: «il diritto di emigrare e il diritto di non emigrare». Concetti che la Conferenza episcopale italiana ha tradotto di recente nel motto «liberi di partire, liberi di restare», cui ha ispirato una campagna avviata nel 2017, che, secondo l’allora presidente della Cei Gualtiero Bassetti, voleva delineare «un lungo cammino di condivisione di storie e di iniziative che hanno cercato di gettare uno sguardo e porgere l’aiuto possibile sul vasto fenomeno delle migrazioni, che interessa da sempre il bacino del Mediterraneo, ma che ormai è divenuto un fenomeno planetario, con milioni di persone in tutto il mondo che sono alla ricerca di una vita migliore».
Nel corso di questo cammino è stato delineato uno spettro ampio del fenomeno migratorio che dalle cause che spingono a partire giunge al viaggio, dall’arrivo nel Paese di destinazione alla permanenza e all’inclusione. Una complessità di situazioni che richiede sempre più persone che dal punto di vista giuridico sappiano agire con competenza e professionalità nell’ambito specifico del diritto delle migrazioni, il cui rilievo è fondamentale e crescente nei settori amministrativo, educativo, sociale, della comunicazione, e nelle stesse professioni giuridiche. In tal modo, alla forza dei valori fondamentali che stanno alla base della stessa convivenza umana si aggiungerà la forza del diritto per dare loro concretezza. E si metterà al centro la persona, l’incontro di culture e non lo scontro; non l’esclusione, ma una forza positiva a favore di una società più giusta.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!