L’ultimo assoluto
Nei talk show televisivi, nei commenti ai post dei social media e nei piccoli e grandi scontri della nostra quotidianità, si coglie un clima di contrapposizione, di aggressività ed emotività scomposta. Persino quando si parla di pace, si possono incrociare sguardi e parole – tutt’altro che pacifiche – che annaffiano i semi della violenza. A volte, si ha l’impressione che, anche quando si sostengono ragioni simili, la contrapposizione – più che il contenuto stesso – riguardi la forma della relazione, segnata da una sfiducia minuta, capillare e diffusa.
Viviamo, del resto, in un mondo percorso da lacerazioni: siamo, al tempo stesso, iperconnessi e isolati in bolle di consumo, ipersollecitati e distratti, apparentemente svincolati da obblighi morali eppure sottomessi agli imperativi dell’accelerazione e della prestazione. In questo clima culturale, ci troviamo a oscillare tra due tentazioni opposte e speculari: da una parte, la tentazione di imporre e difendere la propria identità. Ne sono un esempio le echo chambers, cioè ambienti sociali virtuali (per esempio, i social media) in cui prevalgono l’identificazione col gruppo, si amplificano le idee e le credenze di quel gruppo, mentre si censura tutto ciò che proviene dall’esterno, perché viene percepito come un tentativo di aggressione dei propri confini. Dall’altra parte, tendiamo verso forme di individualismo esasperato, dove il proprio vissuto rappresenta l’ultimo assoluto. Una situazione in cui il singolo si ritiene sciolto da ogni possibile confronto, condannato a restare in bilico sulla propria ombra.
Da un lato, quindi, incontriamo gruppi che si ritengono depositari di un sapere valido per tutti, e che tendono a rendere simile a sé il diverso. Scaturisce da qui, per esempio, il sospetto verso gli «universali» rivestiti con abiti euro-americani, in quanto espressione dei rapporti di forza che vedono il 15 per cento più influente del Pianeta imporre il proprio quadro valoriale al restante 85 per cento. Dall’altro, l’illusione di poter trasformare il proprio desiderio in legge confina ciascuno nel suo frammento, in forme di indifferenza appena mascherata dietro allo slogan «ognuno fa quello che gli pare». Ci si rassegna così alla mancanza di un senso condiviso, perché la frammentazione dei sensi non ci permette di riconoscere ciò che ci accomuna, al di là delle differenze.
Come sottrarsi a quest’oscillazione? Proviamo a pensare all’umano secondo la figura della croce, che salda l’abbraccio orizzontale con la tensione verticale, la concretezza della storia con l’anelito alla trascendenza: esso appare come una tessitura tra invisibile e manifesto, mancanza e sconfinatezza, mondanità e mistero. Senza radicamento in una storia particolare, l’umano non avrebbe carne; ma senza la possibilità di trascendere tale storia – oltre ogni chiusura – non avrebbe respiro né parola.
Qual è dunque il punto di raccordo tra verità singolari e verità universale? Provo a dirlo così: ciascuno parla e pensa secondo una prospettiva modellata dal groviglio di appartenenze familiari, geografiche, sociali, culturali, spirituali. Non riconoscere tale storia significherebbe privarsi della sua linfa, ma, per rimanere vitale, anche la storia particolare di ognuno di noi deve circolare, deve toccare in qualche modo la storia degli altri. Del resto la nostra stessa tradizione si rinnova, pur recando i segni dei passaggi e dei testimoni che ci hanno preceduti. In questo modo si accende la consapevolezza che il mio sguardo è parziale, e non è mai neutro. Al contempo, questa mia consapevolezza mi apre all’«umano comune», a percepire, cioè, che c’è qualcosa che ci trascende e ci unisce, al di là delle singole storie. Che tra di noi ci sono connessioni e interdipendenza. «Universale» in questo senso significa letteralmente «che sta dentro un universo», dentro e sotto una volta stellata che ci contiene e ci supera, dove ogni cosa riceve un senso, che noi continuamente cerchiamo, anche quando siamo persi nel nostro piccolo mondo.
Per esprimere l’unità delle differenze, papa Francesco sceglie l’immagine del poliedro, differenziandolo dalla sfera, liscia e uniforme, che distrugge l’unità perché toglie la capacità di essere differente. Se le differenze senza unità sono il regno del caos, l’unità senza differenze interpreta il mito della globalizzazione che scardina il singolare e lo rende calcolabile e mercificabile. Il poliedro rinvia, invece, a un’unità nella diversità, che dà senso a ogni prospettiva. Nessuno è in pari con la Verità, ma ciascuno la riceve, la filtra e la riflette secondo il proprio volto e nella misura in cui riesce a vedere oltre se stesso. Da un’altra tradizione spirituale, il monaco buddhista vietnamita Thich Naht Han, scomparso nel 2022, disvela l’interconnessione di ogni essere vivente e non vivente: nulla ha un’esistenza indipendente, individuale, ma ogni cosa «inter-è» con ogni elemento dell’universo. Solo la consapevolezza dell’inter-essere può dissolvere le barriere tra di noi, smascherare l’idolatria dell’interesse individuale e generare comprensione e compassione.
Se questo è vero, allora vivere intimamente la mia tradizione mi rende sensibile alla carne dell’esperienza altrui e, per converso, il cogliere l’esperienza altrui concede alla mia prospettiva di acquistare profondità. Ma nessun dialogo è possibile se non comincia dentro di noi e non pacifica la lotta tra sentimenti, percezioni e stati mentali, come accade quando non dico quello che penso e non faccio quello che dico. Per fare pace fuori di noi, occorre esercitarsi a curare le nostre ferite; infatti, solo coltivando la capacità di riconciliarci, sopportare e benedire ciò che della nostra storia non ci piace è possibile ammorbidire il nostro cuore e annaffiare i semi di benevolenza, gentilezza e gratitudine che esso custodisce. È allora che, al fondo del nostro sentire, avvertiamo la realtà dell’universale: che ogni donna e uomo sono il soffio dello Spirito che scrive la carne della Storia e fa germinare la speranza.
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