Zone umide, patrimonio da tutelare
Quando si parla di zone umide in riferimento ad ambienti naturali si intende parlare di tutti quei luoghi dove acqua e terra convivono: dai più apprezzati laghi alpini ai meno amati stagni e paludi, passando per una incredibile varietà di ambienti che condividono questa denominazione, come «paludi e acquitrini, torbiere oppure bacini, naturali o artificiali, permanenti o temporanei, con acqua stagnante o corrente, dolce, salmastra, o salata, ivi comprese le distese di acqua marina la cui profondità, durante la bassa marea, non supera i sei metri» (Convenzione di Ramsar).
Le zone umide sono molto rilevanti a livello naturalistico, per alcune fondamentali caratteristiche: oltre a rappresentare tappe obbligate nelle rotte migratorie degli uccelli, sono ambienti che raccolgono la maggior quantità di biodiversità e sono anche in grado di sottrarre grandissime quantità di anidride carbonica dall’atmosfera. Per tutelarle, nel 1971 è stata firmata la Convenzione di Ramsar che ha permesso di definirle in modo più preciso a livello internazionale. In Italia sono state individuate 66 aree Ramsar distribuite in 15 Regioni, 57 delle quali sono riconosciute di importanza internazionale. Occupano una superficie totale di 77.856 ettari e spesso, per via della loro importanza, si collocano nel perimetro di altre aree protette o Siti Natura 2000.
La situazione delle zone umide richiede un’attenzione crescente. Infatti, secondo pubblicazioni IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, piattaforma intergovernativa che ha il compito di valutare lo stato della biodiversità e dei servizi eco-sistemici allo scopo di promuovere l’interfaccia tra scienza e politica) del 2019, è emerso che le zone umide sono tra gli ecosistemi più colpiti dal cambiamento climatico e dallo sfruttamento delle risorse naturali: solo nel Mediterraneo, il 48% di esse è stato perso negli ultimi 50 anni.
L’Unione Europea ha colto l’invito all’azione e nel 2021 ha firmato la «Risoluzione del Parlamento europeo sulla strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030 – Riportare la natura nella nostra vita» che si pone l’obiettivo di proteggere almeno il 30% delle aree marine e terrestri dell’Unione (che includono una gamma diversificata di ecosistemi quali foreste, zone umide, torbiere, pascoli ed ecosistemi costieri), e di sottoporre a protezione rigorosa almeno il 10% delle aree marine e terrestri dell’UE. Il piano prevede non solo la protezione degli ambienti ancora sani, ma anche il ripristino di quelli andati persi, allo scopo di riportare ai livelli passati la biodiversità e di contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici.
«Le zone umide sono ambienti a massima biodiversità – spiega Susanna D’Antoni, ricercatrice Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), che ha partecipato al XIV Incontro della Conferenza delle parti contraenti della Convenzione di Ramsar sulle zone umide (COP14) tenutasi a Wuhan, in Cina e, parallelamente, a Ginevra, in Svizzera, lo scorso novembre –. Dove c’è acqua c’è una maggiore strutturazione delle catene trofiche (cioè il rapporto tra gli organismi di un ecosistema). Troviamo quindi più diversità sia di flora che di fauna. Questi ambienti sono importanti anche per i servizi ecosistemici che forniscono. Un esempio? Le alghe che vivono nelle zone umide e che hanno un effetto positivo per la fitodepurazione. Le zone umide, per via delle grandi risorse biologiche e della presenza di acqua, sono spesso luoghi dove si sono sviluppate civiltà. Rappresentano dunque aree con rilevanza anche antropologica e culturale oltre che biologica. Ma l’importanza di questi luoghi non si esaurisce qui. Sono infatti tappe fondamentali di ristoro per gli uccelli migratori che, grazie a queste convenzioni sovranazionali, possono essere tutelati in grandi areali che non potrebbero essere salvaguardati da un solo Stato o in un unico luogo». Attualmente sono 172 i Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione di Ramsar, tra cui tutti gli Stati membri dell’UE. Vediamo quindi un totale di 2.455 siti Ramsar per una superficie protetta di 255.897.678 ettari.
Abbiamo detto che tra gli effetti positivi delle zone umide c’è quello della mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici. Esse sono infatti capaci di sequestrare dall’atmosfera anidride carbonica, uno dei più noti gas a effetto serra, e di stoccarla sotto il livello dell’acqua. «Questo vuol dire anche che se questi luoghi vengono interrati o mal gestiti, l’anidride carbonica che trattengono si libera» sottolinea D’Antoni.
Un anno fa (giugno 2022) la Commissione europea ha presentato una nuova proposta di legge, la «Nature Restoration Law», che si pone tra gli obiettivi il ripristino del 20% delle superfici terrestri e acquatiche entro il 2030. «Oltre alle direttive europee che vengono recepite, anche l’Italia è impegnata in primo piano nella tutela di questi ambienti. Ispra, con la partecipazione di Arpa (Agenzia regionale per la protezione ambientale) e delle Regioni, ha censito circa 1.500 zone umide sul nostro territorio, oltre alle zone Ramsar. Dal censimento è risultato che alcuni ambienti si trovano in parchi naturali o in siti tutelati dalla rete comunitaria Natura 2000. Alcune aree invece non rientrano ancora in aree sottoposte a tutela ma, dopo il censimento, sono all’attenzione per eventuali ampliamenti di aree protette», prosegue la ricercatrice.
Nel protocollo Ramsar e nella «Nature Restoration Law» si parla molto di limiti all’utilizzo di fitofarmaci: «È necessario sviluppare una gestione integrata di tutti i corsi d’acqua, soprattutto con l’aumentare degli eventi siccitosi. Per questo vanno studiate e comprese tutte le funzioni che un corso acqua ha, sia a livello di ecosistemi che di agricoltura e zootecnia», ribadisce Susanna D’Antoni. Un approccio di ecologia integrale che prende in considerazione l’uomo e le sue attività, inserito nell’ecosistema in cui vive.
Tutto ciò è emerso chiaramente dagli studi Ispra sulle zone umide agricole, come le risaie. «Le risaie sono zone umide artificiali frequentate da insetti, anfibi e uccelli – chiarisce D’Antoni –. Nei nostri studi abbiamo confrontato le risaie biologiche con le risaie convenzionali e abbiamo così potuto riscontrare che, laddove gli agricoltori usano metodi biologici, la biodiversità era maggiore e vi erano al contempo meno problemi con parassiti o specie fitofaghe. Questo non accadeva sempre, invece, nelle risaie biologiche contornate da coltivazioni tradizionali (dove venivano usati pesticidi), in quanto alcune specie, come ad esempio l’ibis, preferiva questo tipo di risaie in cui trovava più rane di cui cibarsi».
Per questo, conclude la ricercatrice, «per un’agricoltura più compatibile con l’ambiente va diminuita la meccanizzazione e la banalizzazione degli ambienti. Abbiamo avuto la prova che questo è possibile: il rispetto dell’ambiente naturale nelle risaie biologiche ha portato infatti a un miglior risultato nel tempo e le minori rese sono state compensate dalla maggiorazione di prezzo del prodotto riconosciuto come biologico. Quello che è emerso è dunque la necessità, non più procrastinabile, di realizzare dei biodistretti, in cui l’acqua sia gestita con lo stesso metodo condiviso. Per questo tra le nostre proposte c’è anche il mantenimento, all’interno delle zone agricole, di zone umide per gli animali selvatici, quasi delle oasi da lasciare a disposizione della fauna selvatica».
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