Ho paura di essere felice
Si può avere paura della luce? Di solito si ha paura del buio, delle tenebre, dell’ombra che abita ciascuno di noi. Come si può temere la luce? È una domanda che mi perseguita da quando ascolto e accompagno le persone in situazione di crisi; un vero e proprio mysterium iniquitatis che non cessa di turbarmi dopo tanti anni. Nelson Mandela, a 75 anni, dopo 26 anni di ingiusta prigionia, pronuncia un magnifico discorso di insediamento come presidente della Repubblica del Sudafrica: «La nostra paura più profonda non è quella di essere inadeguati. La nostra paura più grande è che noi siamo potenti al di là di ogni misura. È la nostra luce, non il nostro buio che ci spaventa…».
La luce spaventa solo se abbiamo qualcosa da nascondere o se si vuole camminare nelle tenebre. Chi accoglie la luce accoglie la gioia che nessuno può rapire dal cuore (cfr. Gv 16,22). Può stupire chi non conosce la Scrittura sacra, che non si trovi, al suo interno, neanche una volta il termine «felicità», parola così cara alla filosofia greca e al buddhismo. Nel Nuovo Testamento si trova, invece, per 75 volte il verbo chairein, gioire, rallegrarsi, e per 59 volte il sostantivo chara, gioia. E il contrario della gioia, ricordiamolo sempre, non è il dolore, ma la tristezza: si può trovare gioia anche nel dolore, se esso fa fiorire la vita, se non è un dolore inutile e sterile: «La donna, quando partorisce è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21).
Quante persone soffrono le doglie del parto senza riuscire a «partorirsi»? Vivendo una vita sterile e stagnante, talvolta cinica e senza gioia? Ci si può abituare talmente a stare male che solo l’idea di vivere un po’ di gioia provoca dolore. Ci si può abituare a una vita meschina, senza speranza e non voler far niente per uscirne. Per questo bisogna vigilare sulla tristezza che, se coccolata a lungo, si installa nei meandri della mente e non se ne va più. Se la tristezza si accomoda sul divano della nostra mente, inibisce la speranza che sia possibile un cammino verso la gioia; non solo non lo rende possibile ma neanche credibile. La tristezza diventa sfiducia e la sfiducia genera disperazione.
Eppure, se una volta hai gustato la gioia non la dimentichi. La gioia, che è una «contentezza di essere» che basta a se stessa; pura consapevolezza di esistere, di essere voluti, desiderati, amati. Che non siamo uno sbaglio, che non siamo al mondo per sbaglio. Se c’è questa intuizione del cuore tutto si rischiara perché «tendono alla chiarità le cose oscure» (Eugenio Montale) e agli occhi piace vedere il sole (Qo 11,7). Se hai gustato anche solo per un momento questa gioia, la custodisci con cura e, se la smarrisci tra i meandri caotici della vita, ne conservi una nostalgia sfibrante: «Non avessi mai visto il sole avrei sopportato l’ombra, ma la luce ha aggiunto al mio deserto una desolazione inaudita» (Emily Dickinson).
Bisogna anzitutto distinguere la gioia, che è un frutto maturo dello Spirito, dal piacere, che è un’ebbrezza dei sensi. Di piaceri il mondo è strapieno, ma questo non sembra rendere felice nessuno. La gioia ha un altro gusto: ha il sapore fragrante dell’amore e della gratuità. Se qualcuno mi chiedesse: conosci il segreto della felicità? Risponderei: non lo so! La felicità dipende anche da tante circostanze esterne: la salute, un buon lavoro, una relazione affettiva che funziona, un buon reddito. Ma se mi chiedeste: conosci il segreto della gioia? Vi risponderei: ho un’intuizione, un’esperienza che mi fa dire che c’è una strada che porta alla gioia. Questa strada non passa né dallo sviluppo personale né solo dalla consapevolezza di quello che siamo, per quanto queste cose siano importanti. Questa strada passa per le vie misteriose ma reali del dono e della gratuità. Ma per camminare su questo sentiero bisogna uscire dalla logica sfiancante del debito, del debito verso Dio, verso la vita, verso i nostri sensi di colpa. Il peggiore di tutti i sensi di colpa è quello di esistere: non sentirsi degni, importanti, preziosi, amati. Pensare che bisogna costantemente meritarsi l’amore a cui aneliamo nel profondo: che ci sia qualcuno che sappia che noi esistiamo, che ci riconosca.
Tutto quello che siamo e che abbiamo ci è stato donato: la vita, i nostri affetti più cari, la bellezza di questo meraviglioso e fragile pianeta, la gioia di amare e di essere amati. Tutto ci è donato da chi ci ha chiamato alla vita, creandoci. La gratuità del dono apre alla gratitudine e allo stupore, non alla logica sfiancante del debito (cfr. S. Olianti, Di fronte alla morte impara la vita. Per un’etica della speranza, EMP, 2022, pp.204-205). Lo stupore è accorgersi che in ogni uomo, anche nel più devastato e sfiorito, c’è un frammento di Dio; in ogni vita, per quanto sfigurata dal peccato o dal dolore, c’è luce e bellezza. Siamo chiamati a essere fecondi, a dare fiori e frutti: solo così risplende la vita, solo così risorge dalle ceneri dell’insignificanza. Nietzsche diceva che avrebbe voluto vedere nel volto dei cristiani la faccia dei risorti, la gioia della vita e non la mestizia dello schiavo debitore! La faccia dei «mal riusciti», di coloro che bramano il Cielo perché hanno paura di vivere pienamente sulla Terra. Bisogna imparare la faticosa e umilissima arte di amare se stessi, che non è centrare l’attenzione su di sé, ma dimenticarsi del proprio ego per far emergere la parte più vera e bella di sé. Il coraggio della speranza per imparare ad amare e a lasciarsi abitare dalla gioia.
Braccare la gioia come il segugio fiuta la preda è osare il coraggio della speranza, che è la passione del possibile e che si può trovare dove meno ce lo si aspetta, anche nella miseria più profonda, laddove si compia un passo in più, nell’attesa tenace e paziente del proprio compimento che si può trovare solo rischiando e maturando scelte che orientino alla vita e al gusto per la vita. Ma bisogna muoversi, camminare, anche se è buio, perché il cammino della speranza si apre solo camminando, come Abramo, che nella canizie degli anni e nella sterilità di una posterità desiderata e frustrata, si è fidato di Dio e si è incamminato verso una terra che non conosceva, osando il coraggio della speranza. «Basterebbe un passo, e la mia miseria profonda sarebbe beatitudine» (Rainer M. Rilke). Il passo della fiducia che squaderna la speranza del cuore e illumina il cammino di ogni uomo. Perché non mente colui che ci ha promesso: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11).
Puoi leggere l'articolo, completo di un approfondimento di fra Massimiliano Patassini sul beato Marcel Callo, nel numero di luglio-agosto del «Messaggero di sant'Antonio» o nella versione digitale della rivista. Provala ora!