L’uomo delle stelle
Luca Costantin, 34 anni a marzo, è uno dei «cervelli in fuga» dall’Italia, che danno lustro – immeritatamente per noi – al nostro Paese, fuori dai confini nazionali. Nato a San Donà di Piave, in provincia di Venezia, dopo aver frequentato il liceo scientifico nella cittadina veneta, si è trasferito a Padova per l’università, facoltà di Fisica. Poi, mentre gli studi procedevano, è sbocciata un’inattesa passione per l’astrofisica e da qui è partito il suo strepitoso percorso internazionale. A Luca Costantin, infatti, si deve la scoperta della galassia Ceers-2112, subito ribattezzata come la «gemella» della Via Lattea.
Msa. In che cosa consiste la scoperta di cui sei protagonista?
Costantin. La scoperta si basa su recenti osservazioni che abbiamo fatto con il nuovo telescopio spaziale James Webb, uno strumento potentissimo, che ha richiesto 20 anni di sviluppo ed è costato circa 10 miliardi di dollari. Un telescopio che, da quando è attivo, ha subito permesso di avere immagini dell’universo con un dettaglio senza precedenti. Le prime osservazioni sono state effettuate dalla mia équipe nel giugno scorso e, dopo quasi un anno di analisi, abbiamo scoperto questa «nuova» galassia che ha una struttura similare alla nostra Via Lattea. La cosa importante, però, non è tanto la scoperta in sé, quanto il fatto che noi riusciamo a osservare questa galassia quando l’universo era molto giovane, visto che la luce di queste galassie che osserviamo impiega miliardi di anni a giungere fino a noi. Oggi noi sappiamo che la vita dell’universo è di circa 13,8 miliardi di anni, ma le immagini che stiamo ottenendo risalgono a quando l’universo aveva all’incirca il 15% della sua vita attuale, cioè poco più di 2 miliardi di anni. Sta qui l’importanza della scoperta: noi vediamo una galassia simile alla nostra nell’universo giovane e possiamo caratterizzarne, grazie al telescopio James Webb che ci consente di vederla nel dettaglio, la struttura e un po’ tutte le proprietà fisiche. È come se potessimo guardarci nel passato, assistendo allo sviluppo della nostra Via Lattea, una cosa finora impensabile, visto che ci si poteva basare solo su modelli matematici.
Ma perché si tratta di una scoperta così importante?
È importante sotto vari aspetti. Il primo è quello più strettamente astrofisico. La nuova galassia, così come la nostra Via Lattea, è una galassia cosiddetta «a spirale barrata», perché, se la immaginiamo nel cielo, è come una girandola i cui bracci si dipartono da una struttura centrale allungata, chiamata appunto barra galattica. Molte delle galassie vicino a noi hanno questa struttura, è una delle più frequenti dell’universo che ci circonda (il cosiddetto «universo vicino»). Queste strutture si suppone che si formino quando l’universo ha la metà della vita attuale, quindi 7/8 miliardi di anni, mentre noi ne stiamo osservando una nell’universo primordiale. È una situazione che i nostri modelli non hanno saputo predire e inquadrare nella visione globale di formazione ed evoluzione delle galassie. Questa scoperta, che sta aprendo nuovi filoni di ricerca, potrebbe quindi cambiare per sempre le teorie sull’evoluzione delle galassie. Ma poi c’è anche un piano che potremmo chiamare «metafisico» per cui la scoperta è importante, e che si può intuire osservando la grande risonanza che essa ha avuto nel grande pubblico: noi conosciamo la vita solo nel nostro sistema solare e il sole è una delle stelle che formano la Via Lattea che è, come dicevamo, una galassia a spirale barrata come quella che ho scoperto. Quindi è come se potessimo d’improvviso guardare indietro nel tempo e, ipoteticamente, assistere, insieme all’evoluzione della galassia, anche all’evoluzione della vita.
Com’è avvenuta la scoperta?
Da quattro anni vivo a Madrid, dove ho vinto un assegno di ricerca presso il Centro di Astrobiologia, che da poco mi è stata rinnovata per altri cinque anni. Nel centro in cui opero faccio parte del progetto di ricerca sul telescopio spaziale James Webb. Personalmente, poi, partecipo anche a numerose équipe internazionali e la ricerca che ha portato alla scoperta è frutto proprio del lavoro di una di queste, il cui responsabile è un ricercatore dell’università del Texas. Il mio «merito» sta nell’aver proposto a questa équipe il caso di ricerca che ha portato alla scoperta: io avevo notato questa galassia interessante e così non solo ho suggerito di studiarla, ma mi sono anche occupato in prima persona dell’analisi che poi è stata discussa insieme.
Com’è nata la tua passione per la fisica e poi per l’astrofisica?
Ho sempre avuto la passione per la scoperta e il desiderio di trovare risposte a domande o di suscitarne di ulteriori. Poi, durante il percorso universitario, mi ha affascinato la simmetria, la bellezza delle leggi che governano l’universo. Se ci si pensa, l’astrofisica è l’unica disciplina fisica nella quale noi non possiamo ricreare in laboratorio ciò che stiamo studiando, cioè l’universo, come invece accade per altre branche di questa materia. Noi possiamo solo osservarlo e cercare di capire, attraverso questa osservazione e l’interpretazione di ciò che vediamo, come funziona, trovando le formulazioni matematiche e fisiche per spiegarlo. Cercare di capire come il tempo, l’universo, le galassie, le stelle si sono formate mi pare una cosa incredibile.
Come sei arrivato a Madrid?
Dopo il dottorato post-laurea a Padova (durante il quale ho trascorso qualche mese in Scozia, all’Università di Saint Andrews), ho lavorato per un anno a Milano nell’Osservatorio Astronomico di Brera dell’Istituto nazionale di astrofisica. Mentre ero lì ho partecipato a un bando della comunità di Madrid e l’ho vinto. Era un bando interessante, sia per la durata quadriennale, quando normalmente i contratti di ricerca sono di un paio d’anni, sia perché il centro di astrobiologia madrileno è stato molto coinvolto nella fase di progettazione e di sviluppo del telescopio James Webb.
Com’è la vita di un ricercatore?
Non è facile, soprattutto oggi, quando stanno aumentando i ricercatori (ed è un bene) ma non aumentano di pari passo i fondi per la ricerca. Così ci troviamo spesso inseriti in ambienti molto competitivi, dove ciascuno cerca di conquistarsi una borsa di ricerca per garantirsi un minimo di stabilità. Ma la strada è lunga. Ora, per fortuna, si sta capendo che non sempre è necessario andare all’estero per migliorare il proprio curriculum: il Covid ci ha mostrato che possiamo restare connessi con il mondo in qualsiasi posto ci troviamo, purché sussista un buon collegamento internet. Di fatto, io oggi potrei svolgere il mio lavoro da qualsiasi luogo, connettendomi con il Giappone, gli Stati Uniti o il Sudafrica. Sono fiducioso, penso che questa sarà la strada del futuro, che non solo ci consentirà di non doverci allontanare dai nostri affetti o di poterci costruire una famiglia, ma anche di tutelare al contempo il nostro pianeta, limitando gli spostamenti non necessari. Forse è il momento di dare più valore a queste cose.
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