Non siamo macchine
È stata spesso usata, dopo la fase critica del covid-19, la metafora della «ripartenza». C’è una relazione molto stretta tra come parliamo, come pensiamo, come agiamo.
Le parole sono finestre che si aprono su campi di significato, che ci aiutano a guardare in una direzione ma ne precludono un’altra. Molto spesso, quelli che sembrano sinonimi non lo sono affatto, e orientano il nostro rapporto col mondo e con gli altri in modo diverso.
Ecco perché è meglio non usare «ripartenza»: il presupposto è infatti che la società sia una macchina che si è fermata, che ha perso pezzi, ma che ora deve riprendere a funzionare.
Una macchina è un congegno che ha una propria logica interna, una coerenza, una unità. Se è ben oliato, funziona bene, se qualche pezzo si rompe, va buttato e sostituito.
Il funzionamento non altera la configurazione, che rimane uguale a se stessa, non si trasforma, e al massimo deperisce con l’usura. Abbiamo iniziato a trattare il corpo come una macchina, con i vari pezzi di ricambio e ritocchi alla «carrozzeria».
Ora interpretiamo anche la società in questo modo. Ma la società non è una macchina, è un organismo: vive, si trasforma, inventa nuove vie quando le vecchie appaiono inadeguate.
Non butta via le parti che «non funzionano» ma se ne prende cura. Non torna indietro, ma guarda avanti. Non si limita a fabbricare, ma genera. Ecco, non dobbiamo ripartire: dobbiamo rigenerarci.
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