Distanti ma uniti
Niente come la pandemia ha abbattuto muri e confini. Ai virus non servono passaporti, si dice, e SARS-Cov-2 ce lo ha dimostrato. Per la prima volta a memoria d’uomo, a differenza di guerre o disastri naturali, una tragedia si è abbattuta su tutto il globo. Nessuno ha potuto tirarsene fuori, come in un conflitto mondiale, né, in assenza di cure e vaccini efficaci, ne sono stati risparmiati i Paesi più ricchi. Anzi, poiché covid-19 colpisce più duramente all’aumentare dell’età, le nazioni più povere, mediamente più giovani, sembrano per ora reggere meglio l’impatto, nonostante sistemi sanitari più fragili. L’infezione ha, al contrario, messo in luce le debolezze di quelli più avanzati, ma meno egualitari, come quello statunitense: è vero che la malattia non distingue tra persone famose e comuni cittadini, ma in contesti di forti diseguaglianze socioeconomiche, come anche in Brasile o in India, trova un terreno più fertile. Se l’infezione corre incontrollata tra i meno fortunati, anche i privilegiati vi saranno più facilmente esposti.
Connessioni inattese
La pandemia non si combatte senza solidarietà, quella solidarietà che, in Italia, sembrava illuminare il momento più buio, insieme all’ottimismo degli striscioni con gli arcobaleni e le scritte «Andrà tutto bene». Per qualche giorno, alle sei di sera, il cupo silenzio che avvolgeva le città non era più spezzato solo dalle sirene delle autoambulanze, ma anche dai canti intonati dalle finestre, che cercavano di opporre speranza al tetro bollettino snocciolato dalla sede della Protezione civile. I cori univano voci distanti, facevano sentire vicini. A Milano il rito dell’aperitivo si spostava sui balconi, dove si scambiavano parole di incoraggiamento con vicini mai incrociati prima. Nel momento più oscuro, la necessità di una separazione fisica alimentava connessioni inattese. Telefonate a parenti anziani che non si sentivano da mesi: «Stai bene? Mi raccomando, non uscire». Solidarietà per i condomini in isolamento al piano di sopra, a cui ci si offriva di fare la spesa. Candeline spente davanti a una webcam, concerti virtuali con musicisti che si esibivano dal salotto di casa, influencer, attori e cantanti che intrattenevano quotidianamente i loro follower sui social network, invitandoli ad adottare comportamenti virtuosi.
Solo l’aiuto consente a chi non sta bene di stare isolato, non la diffidenza o l’accusa di essere «un untore». Così, su un piano superiore, solo un’azione coordinata tra tutti i governi del mondo può porre freno alla pandemia. Fin dalle sue prime dichiarazioni al riguardo, Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, non ha fatto che ripeterlo: la sfida è globale, ci siamo dentro tutti insieme e possiamo superarla solo se lo faremo tutti insieme, con un grande sforzo collettivo e solidale. Valeva nelle prime fasi, quando l’Organizzazione sconsigliava i blocchi dei voli nei confronti dei Paesi più colpiti e metteva in guardia dallo stigma nei confronti della Cina, vale oggi, fase in cui c’è bisogno di garantire a tutti l’accesso a cure e vaccini.
L’altruismo che conviene
Oggi come allora, l’indicazione a fare fronte comune non è solo un’importante questione di principio, ma anche una raccomandazione indispensabile per difendersi dall’infezione. Mentre in Italia, per esempio, a gennaio e febbraio ci si concentrava sulla comunità cinese di Prato e si discuteva se ammettere a scuola i bambini di ritorno in Italia dalla Cina, il virus circolava indisturbato in Lombardia. Solo la caparbietà di una dottoressa dell’ospedale di Codogno ha permesso di identificarlo in una persona, il famoso «paziente uno», che con il Paese asiatico non aveva mai avuto niente a che fare.
Ora, l’egoismo degli Stati che pensano di accaparrarsi tutte le dosi di antivirali e di vaccino in produzione, senza preoccuparsi di quelli che non potranno affrontare la spesa, rischia di rivoltarsi contro la loro stessa popolazione: finché l’agente infettivo potrà circolare liberamente in alcune aree del mondo, infatti, nessuno potrà sentirsi sicuro.
Anche nella dimensione privata, passata – o così almeno si spera – la fase peggiore, sono purtroppo riemersi individualismi e difesa degli interessi personali, talvolta a scapito della collettività, soprattutto dei più fragili. Il virus fa meno paura, mentre il desiderio, e talvolta lo stringente bisogno economico, di tornare alla normalità tendono a prevalere. Se tutto questo è comprensibile, nei mesi autunnali non bisogna dimenticare il peso che i comportamenti di ciascuno di noi possono avere sull’accensione di nuovi focolai. Le autorità hanno il dovere di esercitare una stretta sorveglianza per individuarli e spegnerli sul nascere attraverso la strategia delle tre T (in inglese, «test, track and treat», testare, tracciare e trattare), ma sta a noi cercare di limitarli, adottando al contempo le tre C: ridurre al necessario i contatti stretti ed evitare i luoghi chiusi e affollati (in inglese «crowded»).
Più che preoccuparci delle minacce che vengono da fuori, dovrebbe essere nostra cura prestare la massima attenzione all’insorgenza di sintomi compatibili con covid-19, per isolarci o comunque fare attenzione a proteggere chi ci sta intorno o chi potremmo incontrare uscendo di casa. Se passiamo dall’ottica di difenderci a quella di difendere gli altri, la nostra capacità di rispondere a SARS-Cov-2 farà un enorme balzo in avanti.
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