Pericolo astensionismo
A poche settimane dalle elezioni, il timore più grande è quello dell’astensione. Il distacco e la disaffezione dalla politica sono profondi, il muro d’incomprensione tra i cittadini e chi dovrebbe rappresentarli in Parlamento rimane alto e non lascia intravedere a breve la possibilità di una ripresa di dialogo. Sempre più numerosa appare la schiera di chi pensa che combattere per le proprie idee attraverso il voto sia inutile. Se all’inizio della vita della Repubblica i cittadini che andavano a votare erano oltre il 92 per cento, dagli anni ’80 in poi le percentuali sono scese sempre di più e oggi i non votanti costituiscono il più grande partito italiano.
Di fronte alla drammaticità del fenomeno astensionista (il cui più recente esempio si è avuto nelle elezioni siciliane), sono in atto tentativi di ridimensionarlo e giustificarlo. È proprio vero che non c’è motivo d’inquietudine? Qualche dubbio viene pensando al referendum sulla riforma della Costituzione di un anno fa, che registrò un’affluenza di oltre il 65 per cento. Sia i favorevoli sia i contrari sentivano che il loro contributo avrebbe influito su decisioni politiche e, per questo, si erano recati alle urne. Possono dire la stessa cosa per le prossime elezioni? Possono gli stessi cittadini pensare che influenzeranno o cambieranno la politica del Paese? Questa è la domanda fondamentale alla quale rispondere se si vuole contrastare il fenomeno del non voto.
Per molti la risposta all’interrogativo è negativa. Sono in tanti a non credere di poter avere una qualche influenza sulla vita pubblica. Andare alle urne appare inutile, se le cose vengono decise in luoghi sconosciuti ed estranei. I palazzi della politica sono ormai troppo lontani perché si possa pensare di influire in qualche modo con il voto. Il Fondo monetario, la Banca Mondiale, le stesse istituzioni europee con le loro rigide regole di compatibilità appaiono poco o per nulla permeabili. L’approvazione o l’opposizione alle loro decisioni non le influenza e non modifica il loro modo di essere. Di qui la rassegnazione e l’apparente mancanza di speranza. Ma non solo questo: c’è anche una sfiducia in chi dovrebbe farsi carico di arrivare nei palazzi lontani della politica globale. Nessuno dei protagonisti della vicina battaglia elettorale è ritenuto in grado di portare il messaggio affidato, di provare a rappresentare una volontà popolare.
Mancanza di speranza e sfiducia sono i due sentimenti che alimentano il non voto. Sentimenti in parte comprensibili e, tuttavia, non poco pericolosi, perché alla fine lasciano campo libero proprio a chi ha alimentato la rassegnazione e il disgusto e finiscono, paradossalmente, col premiare chi ha usato la politica come strumento di malcostume e di corruzione. Rimane poco tempo per convincere i delusi a tornare al voto, forse troppo poco anche per ricostruire un rapporto di fiducia, ma è bene provarci. È una sfida che va raccolta dalle forze politiche che hanno a cuore la partecipazione democratica. Se un ponte anche fragile rimane in piedi, è più facile pensare di consolidarlo e, nel tempo, di costruirne altri.