Quando i migranti eravamo noi
«Le migrazioni appartengono alla storia dell’umanità» ha detto di recente papa Francesco, commentando da un lato il clima di rifiuto verso gli immigrati stranieri che sta sempre più permeando la nostra Italia e invitando dall’altro le persone, i credenti in particolare, alla solidarietà. A queste parole del Papa noi potremmo fare eco dicendo che le migrazioni appartengono soprattutto alla storia italiana. Secondo alcune stime sono infatti più di 26 milioni e mezzo i nostri connazionali espatriati durante l’ultimo secolo e ben 60 milioni le persone di origine italiana di prima, seconda e terza generazione che vivono fuori dei confini nazionali. Cominciato subito dopo l’unità d’Italia, l’esodo dei connazionali ha conosciuto un flusso incessante, benché con alterne vicende, non ancora conclusosi. Secondo l’ultimo Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, infatti, nel 2015 oltre 107 mila giovani sono espatriati dal bel Paese in cerca di lavoro.
Un fenomeno in crescita, che coinvolge diplomati, laureati, tecnici e ricercatori dai 18 ai 34 anni (nel 36,7 per cento dei casi). Il 43,9 per cento è costituito da donne; il 20,7 per cento da minori; il 6,2 per cento ha oltre 65 anni. Il documento stilato dalla Fondazione riporta inoltre che oggi sono iscritti all’Aire (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero) più di 4 milioni e mezzo di cittadini italiani (esattamente 4.811.163 al 1° gennaio 2016), buona parte dei quali è in cerca di lavoro. Più che vera e propria migrazione, il fenomeno è considerato «movimento transnazionale».
La meta preferita dai nostri connazionali in partenza dall’Italia è la Gran Bretagna, seguita da Germania, Svizzera, Francia, ma anche dai Paesi d’Oltreoceano con economie in forte espansione. Curiosamente, il dato numerico rispecchia esattamente la quantità di immigrati stranieri presenti in Italia: secondo l’Istat, infatti, al 1° gennaio 2016 risiedevano in Italia oltre 5 milioni di immigrati, pari all’8,3 per cento della popolazione italiana, una cifra di gran lunga inferiore rispetto, per esempio, a Regno Unito, Germania, Francia o Spagna.
Secoli di migrazione
La storia dell’emigrazione italiana è cominciata a fine Ottocento, quando contadini e montanari senza terra, manovali, artigiani e operai disoccupati partivano da soli per andare oltre frontiera: Svizzera, Austria, Germania, Francia. I lavori stagionali permettevano loro di tornare periodicamente a casa: per la leva militare, per aiutare la famiglia... Occupati nella nuova industrializzazione, nella costruzione di ferrovie, ponti, strade e gallerie, i nostri lavoratori emigravano fidandosi di informazioni raccolte da parenti o dal parroco del paese, senza conoscere né lingua né costumi del popolo che li avrebbe accolti. Da varie inchieste svolte a livello nazionale risulta che il 70 per cento di tali migranti fosse analfabeta. Pronti a svolgere qualsiasi lavoro manuale, lasciavano nella maggior parte dei casi un lavoro agricolo sfiancante e senza prospettive e una vita dura, tormentata da malattie endemiche che allora erano diffuse in tutte le regioni.
Dal 1846 al 1915 lasciarono il Paese 14.027.250 persone. In testa, tra le regioni di partenza, il Veneto con 1.823.000 espatri. Durante le due grandi guerre, l’esodo diminuì fortemente, attestandosi attorno ai 4 milioni, ma riprese con forza dopo la seconda guerra mondiale (con 8 milioni e mezzo di nuove partenze), quando il Paese si ritrovò distrutto da bombardamenti e conflitti civili e privo di risorse economiche. I migranti raggiunsero ogni parte del mondo, richiamati dalle industrie in forte crescita: oltre ai Paesi europei, si diressero anche al Nord, Centro e Sud America, in Canada, Australia, Africa, Asia e Nuova Zelanda. I trattati bilaterali stipulati tra le nazioni consentivano regolari assunzioni lavorative, ricongiungimenti familiari, congedi, assistenza sanitaria e diritti civili. Il grande esodo, che comprendeva anche irregolari e clandestini, si concluse negli anni Settanta, quando iniziarono per la prima volta i rimpatri in massa degli emigranti, pur non senza problemi.
Ma come partivano questi nostri connazionali? Fino ai primi decenni del Novecento, le partenze per i Paesi d’Oltreoceano avvenivano su navi da carico riadattate dalle Compagnie di navigazione o su navi negriere già utilizzate per il commercio degli schiavi. Con biglietti di terza classe, sola andata, i migranti s’imbarcavano dai porti di Genova e Napoli viaggiando per oltre un mese stipati nelle stive, su imbarcazioni senza medici né assistenza sanitaria. I contagi erano frequenti e così pure le tempeste. Chi moriva veniva gettato in mare.
Un afflusso consistente di italiani si riversò tra i due secoli in Brasile, dove il governo, che aveva decretato la fine dello schiavismo, necessitava di nuove braccia per coltivare grandi distese di foresta vergine. Giunsero in massa famiglie al completo, soprattutto da Veneto, Friuli, Trentino e Lombardia. Bruciando sterpaglie, scavando canali, dissodando e coltivando nel più totale abbandono, questi italiani costruirono da soli strade, ponti, chiese e case coloniche che ripetevano nella struttura, e perfino nei nomi, quelli lasciati in patria. Tormentati dalla nostalgia, i migranti di allora (e i loro successori, fino a oggi) hanno mantenuto a lungo dialetti nativi, usanze, tradizioni rurali, ruoli sociali e riti religiosi d’origine.
Nel secondo dopoguerra, la successiva ondata di espatri ebbe migliore fortuna. In Europa, e soprattutto negli Stati Uniti, Canada e Australia, gli italiani incontrarono opportunità di lavoro e di crescita sociale, facendosi apprezzare in ogni campo, anche politico, pur dopo un iniziale periodo di diffidenza e di rifiuto da parte della popolazione locale. Oggi sono completamente integrati, hanno ottenuto riconoscimenti in tutti i settori, sono arricchiti da conoscenze e lingue nuove, ottime professionalità e hanno comunque conservato, nel tempo, le radici culturali d’origine, che hanno trasmesso ai figli. A tutti gli effetti sono diventati cittadini del mondo.
L’articolo completo, arricchito di testimonianze e approfondimenti, nel numero di gennaio del «Messaggero di sant’Antonio» e nella versione digitale della rivista.