Quella voglia di aiutare i giovani…
Quel giorno nella Cappella Sistina ha provato una delle emozioni più forti della sua vita: «È stata un’esperienza portentosa e straordinaria» confida Caterina Caselli, regina degli anni del beat italiano e oggi ammiratissima manager discografica. Non molto tempo fa, racconta, era in Vaticano per ascoltare una sublime registrazione del Coro della Cappella Sistina e il maestro Massimo Palombella, che lo dirige, l’ha accompagnata all’interno dell’edificio: «A un certo punto, mentre i tecnici lavoravano per sistemare le apparecchiature, sono rimasta completamente sola al centro di quella meraviglia – continua Caterina –. Di fronte a tutta la magnificenza di quel luogo, ho pensato all’emozione con cui doveva aver lavorato Michelangelo e sono stata presa da una profonda commozione, come di rado mi capita. Credo di aver pianto, certamente sono caduta in ginocchio. Mi sono sentita spogliata di tutti i problemi, lieve e grata: come una preghiera, la sensazione di un contatto diretto con Dio attraverso tutta quella creatività concentrata in pochi metri. È la cosa più vicina a una rivelazione che mi sia capitata nella vita, una gioia infinita che rivivo ogni volta che la mente torna a quel tripudio di bellezza forte e intenso». Proprio cinquant’anni fa, al Festival di Sanremo del 1966, Caterina Caselli (soprannominata «casco d’oro», per via della sua capigliatura) diede una scossa alla canzone italiana con la sua Nessuno mi può giudicare. Passata al ruolo di talent scout, oggi l’artista emiliana continua a promuovere nuovi talenti: Elisa, Malika Ayane, Raphael Gualazzi, Giovanni Caccamo, i Negramaro e Andrea Bocelli sono alcune tra le voci che ha scoperto. «Della Caterina di allora rimane sempre la stessa passione, che mi coinvolge ogni volta che ascolto una musica che mi piace» ammette. Msa. Signora Caselli, lei ha iniziato da giovanissima il suo percorso nella musica. Quali sono state le difficoltà?Caselli. Le basi della mia carriera sono state nelle balere del Modenese, ed è là che ho imparato cosa voglia dire il rapporto ravvicinato con il pubblico. Naturalmente devo ringraziare mio padre che mi ha sostenuta, mia madre che non mi ha ostacolata troppo, il maestro Ivo Callegari che mi ha dato le prime lezioni di musica, e anche don Rino, mio cugino sacerdote (divenuto poi arciprete del Duomo di Modena, ndr), che faceva compostamente il tifo per me. A Roma e a Milano, poi, sono entrata in contatto con l’industria della musica, che a quei tempi curava con grande attenzione l’evoluzione di un artista, a partire dalle sue potenzialità: allora si poteva anche sbagliare, perché c’era più tempo. E in quel mondo ho incontrato Ladislao Sugar, un gigante dell’editoria musicale e dell’industria discografica che, dieci anni dopo, è diventato mio suocero. Gli anni Sessanta sono spesso visti come un mito. Perché, secondo lei? Perché in quegli anni è nata la cultura di massa, con la radio e la tv che hanno messo in circolo le notizie: è stata la prima fase della globalizzazione. E poi, perché le classi di età nate dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e formate per la prima volta in una scuola sostanzialmente uguale per tutti, si sono affacciate al mondo e hanno pensato che si potessero cambiare i modelli di comportamento, anche perché i loro genitori erano troppo impegnati a godere per la prima volta di un reale (seppur modesto) benessere materiale. In più, allora la musica si è affermata come il veicolo più potente di cambiamento culturale, trascinandosi dietro la moda. E il mondo sembrava un grande paese. Poi, da cantante e musicista, è diventata imprenditrice.: com’è avvenuto il passaggio? Sono trascorsi quasi quarant’anni... È stata una scelta meditata. Di certo io allora raggiunsi una grande popolarità come cantante, però la mia carriera è stata breve, non più di sei o sette anni. Quando ho scelto di sposarmi e di avere un figlio, ritenevo che sarei poi tornata a cantare. Invece, quando ho ricominciato a pensare alla musica, avevo meno voglia di esibirmi e più desiderio di aiutare altri talenti a esprimersi. E come fece? Per prima cosa avviai quella che allora si chiamava un’etichetta, cioè una piccola casa di produzione, e la chiamai «Ascolto». In quel nome c’era tutto il mio programma, l’impegno di ascoltare con attenzione tutto ciò che c’era di nuovo. Cantare è sicuramente un’emozione speciale: ti puoi dedicare a costruire l’interpretazione o a migliorare la voce e l’espressività, e sai che c’è qualcuno che si occupa degli aspetti organizzativi. Quando quel qualcuno diventi tu, ti rendi conto di cosa significhi accompagnare la crescita di un artista. La sfida imprenditoriale è un’avventura più complessa. Come si scopre un talento? E come lo si coltiva? Prima di tutto devo emozionarmi, devo sentire che quella voce mi dà qualcosa che non c’era un attimo prima, qualcosa di «vero». Poi si comincia a lavorare con lo spirito e il metodo di un artigiano: bisogna aiutare la vocalità a espandersi anche dal punto di vista tecnico ed espressivo, occorre studiare gli abbinamenti giusti e mettere alla prova il talento. Un po’ alla volta, il «vero» che c’è nell’artista si rafforza, e quando succede è davvero entusiasmante. Lanciare nuovi talenti è una scommessa rischiosa? E l’Italia li valorizza abbastanza? Di sicuro c’è un gran daffare intorno ai pochi veri talenti. Noi li valorizziamo, l’Italia non so: forse nel nostro Paese c’è poca predisposizione a mettere in piedi un sistema in cui confluiscano e possano lavorare insieme pubblico e privato. Bisogna anche saper frequentare i luoghi di formazione del nuovo gusto: quella che a molti della mia generazione non sembra musica talvolta è capace di incantare i giovanissimi in un modo che richiede rispetto. Casa Sugar, nella sua tradizione, è sempre stata aperta verso le novità e disponibile a investire anche nella «nuova» musica (quella sperimentale, che al primo ascolto può apparire estrema) una quota dei guadagni provenienti dalla musica più popolare. In questo modo, in parallelo alle vittorie ai Festival di Sanremo, mio suocero Ladislao e mio marito Piero hanno tenuto a battesimo molti compositori del Novecento, da Luigi Dallapiccola al primo Berio (Luciano, ndr). E continuiamo a fare così. E i talent show sono utili? Li rispetto, anche se penso che siano ormai troppi e non tutti allo stesso livello. Il talent show è un format televisivo, finalizzato agli ascolti e agli spazi pubblicitari, ma poche volte ha a che fare con il reale sviluppo dei talenti musicali. Per funzionare, il talent si deve presentare come una scorciatoia per il successo e anche come un «teatro» dove vanno in scena anche le simpatie o le antipatie dei giudici. Ma se poi andiamo a vedere quanti partecipanti sono ancora in circolazione dopo tre o cinque anni, ne troviamo pochi. Resistono quelli davvero talentuosi e quelli che hanno l’umiltà di capire che la loro vita artistica inizia dopo la fine dello show, anche se lo hanno vinto. Com’è avvenuto il suo incontro con Andrea Bocelli? Lo ascoltai una sera a Bassano del Grappa (VI), in occasione di un concerto di Zucchero, e rimasi subito impressionata dalla sua voce. Poi lo invitai a Milano ed è iniziato così il nostro percorso insieme. Andrea poi ha realmente conquistato il pubblico di tutto il mondo. È un artista molto intelligente, dal carattere forte, e soprattutto ha la capacità di incantare le persone con la sua voce e la sua interpretazione. È una forza che non tutti hanno, un quid che va oltre le capacità e la bravura dell’artista. Ad alcuni concerti di Andrea davvero ho visto spettatori con le lacrime agli occhi. Che ruolo ha la spiritualità nella sua vita? È qualcosa di cui ho enorme rispetto. Vorrei esserne più piena, ma capisco che esserne degni non è da tutti i giorni. Tuttavia la musica è spesso foriera di incantamento spirituale. A mio modo ci provo. Uno dei suoi successi è Perdono: parola quanto mai attuale in questo Giubileo... Già, anche se quello della canzone era un perdono tra innamorati, tutta un’altra cosa rispetto alla misericordia su cui ci invita a riflettere l’Anno santo. Certo, è molto faticoso perdonare. Il perdono non viene spontaneo, tranne, naturalmente, agli spiriti eletti. Però se il perdono è sincero, privo di secondi fini e libero dal ricordo dell’offesa, è un potente strumento di accettazione dei propri limiti e migliora anche la vita di tutti. In più ti fa anche stare meglio. In passato ero meno propensa non tanto a perdonare, quanto a non dimenticare il torto. Adesso riesco anche a dimenticare, e questo mi solleva. C’è un testo letterario che le dà particolare ispirazione e vorrebbe vedere tradotto in musica? Sì, è L’uomo che cammina di Christian Bobin, un autore francese che parla del carisma di Gesù. È un piccolo libro, ma di grande fascinazione. Mi piacerebbe che avesse una sua musica che gli corrispondesse e che ne aiutasse la diffusione. La scheda Da Sassuolo (MO), dove ha trascorso la gioventù, Caterina Caselli ha conquistato la scena musicale giovanissima. Già nel 1963 arrivò in semifinale tra le voci nuove al Festival di Castrocaro, ma il suo successo fiorì nel 1966 a Sanremo col brano Nessuno mi può giudicare. Tra quell’anno e il 1971, Caterina Caselli fu protagonista delle classifiche con hit come Perdono, Sono bugiarda e Insieme a te non ci sto più. Nel 1970 si è sposata con Piero Sugar, figlio di Ladislao, dell’omonima casa discografica, e nel 1971 è diventata mamma di Filippo. Ha quindi lasciato il palcoscenico per l’attività di produttore discografico e, con l’etichetta «Ascolto», ha seguito artisti come Pierangelo Bertoli e Mauro Pagani.
Nel 1991 è nata la «Sugar», «bottega artigiana» che ha scoperto artisti del calibro di Andrea Bocelli, Elisa e Malika Ayane. Tra i più importanti editori musicali non solo italiani, la «Sugar» comprende le «Edizioni Suvini Zerboni» con i cataloghi di musica del ‘900 e, dal 2011, le Edizioni C.A.M., specializzate in musica da cinema. Per la sua attività, nel 2006 Caterina Caselli ha ricevuto il titolo di Grande Ufficiale della Repubblica.