Razia Joseph, una donna contro il fondamentalismo

Dal Pakistan apprendiamo della scomparsa dell’indomita fondatrice del Women shelter organization. A memoria di questa cara amica del «Messaggero di sant’Antonio» e di Caritas Antoniana, riproponiamo un suo profilo uscito sul MSA di febbraio 2006.
18 Gennaio 2018 | di

Il sari coloratissimo, la treccia nera, il sorriso aperto. Non diresti mai che la donna gentile che hai di fronte vive sapendo di essere nel mirino dei fondamentalisti. Si chiama Razia Joseph, viene dal Pakistan ed è uno dei personaggi più amati e odiati di Faisalabad (nel Nord) e forse dell'intero Paese. Combatte un nemico più grande di lei: la discriminazione nei confronti delle donne e delle minoranze, passata come rispetto per la tradizione. È venuta a ringraziare la Caritas Antoniana, per l'aiuto di 20 mila euro ricevuti nel 2005 (Caritas Antoniana ha continuato a sostenere progetti legati alla sua attività fino al 2016, ndr). Li ha spesi per pagare un piccolo stipendio alle sedici persone che combattono in prima linea con lei ogni giorno per aiutare e proteggere le donne in difficoltà , specie le reiette, quelle condannate dalle leggi feudali o quelle che hanno avuto il coraggio di ribellarsi. Ha per questo istituito un rifugio per ragazze (Women shelter organization), l'unico luogo per chi non ha più speranze.

Mi mostra una lettera eloquentissima, una delle tante: «Signora Joseph, conosciamo bene lei e le sue attività. La seguiamo. Se finora è riuscita a salvarsi è solo perché ha fortuna. Questo è un Paese islamico. Per la nostra tradizione, le donne non hanno capacità  intellettive né coscienza dei propri diritti. La sua opera in loro favore non è bene per noi e se lei non la smette la uccideremo». In calce alla missiva, una firma illeggibile.

L'anno scorso hanno incendiato la casa di Razia, saccheggiato il rifugio delle donne, e oggi, con gli attacchi ai cristiani, moltiplicatisi nonostante il flagello del terremoto dell'ottobre scorso, andare avanti è ancora più faticoso. Ho tante pecche agli occhi di un fondamentalista - spiega con un filo di amara ironia - sono donna, single, cristiana, lavoro per i diritti umani e per il dialogo tra le religioni».

Per lei la condizione della donna è il termometro dello sviluppo sociale nel suo Paese: «In Pakistan la donna povera non ha diritti, non va a scuola, non può difendersi né prendere decisioni. Lavora come schiava, non riesce a dare il minimo necessario ai propri bambini. Da noi un figlio fuori dal matrimonio si paga con la vita e persino chi subisce stupro è una vergogna per la famiglia. Una vergogna da far pagare alla vittima». Da lei arrivano indistintamente cristiane e musulmane, sul volto il terrore dell'ostracismo.

Razia racconta di Musarrat, 17 anni, musulmana, promessa sposa a un settantenne: «È scappata dalla famiglia ed è arrivata pregandoci di salvarla. L'abbiamo accolta, ha studiato, è rimasta da noi fino a quando ha trovato un ragazzo che amava e si è sposata». Quel giorno le ragazze del Women shelter l'hanno vestita a festa, erano emozionate perché quella sorella che se ne andava per la sua strada era una luce nel loro destino.Ayesha era incinta, fuori dal matrimonio: «È arrivata terrorizzata. L'ho nascosta da me fino al momento del parto. L'ho portata da un'ostetrica amica, il bambino è nato morto ma lei si è salvata. Una cosa così può costare la vita a ognuna di noi».

 

Vocazione in salita

Cambiare la mentalità , costruire ponti tra uomini e donne, tra cristiani e musulmani, tra ricchi e poveri, tra moderati e fondamentalisti è la chiave del futuro. «È la mia vocazione». Razia lo fa in vari modi: organizza incontri e manifestazioni, realizza una rivista, ma soprattutto investe ogni energia nell'educazione della donna povera. «Innanzitutto bisogna restituire dignità , formare la persona al senso del giusto e dell'ingiusto, guarire le ferite del passato: chi è stato sottomesso fatica a costruire la sua identità ». La seconda fase è la formazione professionale: corsi di ricamo e cucito, di «bellezza»- una via di mezzo tra estetista e parrucchiera - e di computer.Il rifugio delle donne accoglie le ragazze più in difficoltà , attualmente sono quarantacinque, ma ne segue alcune centinaia, organizzando corsi in dieci villaggi dell'entroterra.

Importantissimo il lavoro nelle carceri: qui finiscono le donne più povere, condannate per futili motivi, senza possibilità  di pagarsi un avvocato. Vivono in trenta in un unico stanzone, molte hanno figli neonati, alcuni bimbi sono nati lì tra la sporcizia e lo squallore. Al carcere Razia è approdata gradualmente, conquistandosi sul campo la stima del direttore, un musulmano sensibile e intelligente: «I fondamentalisti mi attaccano dicendo che io insegno alle donne in carcere per convertirle alla mia religione, lui mi protegge perché sa che non è vero e perché capisce l'importanza del nostro lavoro. Ma so che i fondamentalisti aspettano un mio passo falso».

I corsi di cucito attraversano le sbarre e restituiscono dignità : c'è chi esce con una macchina da cucire in mano e non ha più bisogno di rubare per sfamare i suoi figli. In altri casi, l'aiuto legale fa la differenza: Maria, cristiana, era finita in carcere perché accusata di aver rubato un gioiello nella casa del musulmano in cui faceva la serva. In realtà  il figlio del padrone voleva abusare di lei e al suo rifiuto l'aveva denunciata. Non sarebbe mai uscita dal carcere, senza l'avvocato dell'organizzazione: «Oggi vive in un'altra città  con la sua famiglia, protetta dall'anonimato». Storie di coraggio e determinazione, che le donne si trasmettono l'un l'altra.

Attorno a Razia si è creato un silenzioso cordone di protezione che coinvolge tutte le donne, dalle cristiane alle mogli dei fondamentalisti: «Vengono da me, mi appoggiano,  mi confortano, nascondono i miei movimenti. Se qualcuno mi viene a cercare, non sanno... Io le aiuto cambiando date e luoghi, ma la loro presenza mi dà  forza. Spesso vengono anche gli uomini, quelli che non sono d'accordo, che mandano le figlie ai nostri corsi perché è giusto così, che mi danno consigli per evitare problemi». Il terremoto ha peggiorato tutto: «Lottare è più difficile: l'emergenza è sopravvivere. Ma non posso fermarmi. Sono nelle mani di Dio. Lo devo a Lui, lo devo alle donne che in questi anni sono riuscite a superare la vergogna, la paura, le differenze. Grazie per aver creduto in noi. E, per favore, non dimenticate il Pakistan».

Data di aggiornamento: 18 Gennaio 2018
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