Resistere con ponderazione
La parola «resilienza» fa parte di quel gruppo di termini che indicano da secoli, talvolta da millenni, fenomeni ben noti sotto altro nome o in contesti diversi da quelli delle scienze umane, ma che, per essere relativamente nuovi, finiscono col richiamare l’attenzione perfino dell’opinione pubblica, arrivando a diffondere la convinzione che una parola «nuova» indichi un fenomeno nuovo.
In realtà, non si tratta di niente di nuovo, ma di una qualità umana al quale si faceva riferimento, tra gli altri sinonimi, con l’espressione «forza d’animo». Se volete mostrarvi al passo con i tempi, usate pure «resilienza», l’importante è sapere di cosa stiamo parlando. Il termine «resilienza» è ben noto in campo metallurgico per indicare la capacità di resistenza di un metallo alle forze che ad esso vengono applicate. Se la resilienza manca o è scarsa, il metallo è fragile. Si capisce così la fortuna di questa parola, se è applicata agli esseri umani.
Pietro Trabucchi ne dà questa definizione: «la resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino. Il verbo “persistere” indica l’idea di una motivazione che rimane salda». Abbiamo trovato un altro sinonimo: «persistenza».
Prima di andare avanti, riprendo un noto passo del filosofo Immanuel Kant: «La colomba leggera, mentre nel libero volo fende l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria». E invece è proprio la resistenza dell’aria che le consente di volare. Senza quella resistenza, le sue ali non avrebbero l’appoggio necessario per librarsi in volo.
Come ci insegna la psicologia dell’età evolutiva, tutto lascia pensare che non siamo nati per soffrire e semplicemente sopravvivere, ma per vivere e sfuggire per quanto possibile al dolore. «La vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte» (Bichat Xavier). Ma il dolore c’è, gli ostacoli, i fallimenti, le frustrazioni ci sono. Non possiamo evitarli, talvolta sono di tale portata che non possiamo che soccombere senza che qualcuno ci aiuti. È per questo che l’educazione alla resilienza deve iniziare fin dalla più tenera età. L’individuo resiliente non si arrende facilmente anche di fronte alle prove più dure, quello fragile (è il termine opposto a «resiliente») alza subito bandiera bianca.
Occorre che chi ci accoglie in questo mondo ci insegni – meglio se lo fa con l’esempio – che il coraggioso ha paura come il vile. La differenza sta nel fatto che il coraggioso tenta di dominare la propria paura, e il vile ne è dominato. Di fronte alle difficoltà non dobbiamo dimenticare i nostri limiti. Dobbiamo essere abbastanza umili da non esporci a situazioni che non possono essere affrontate con i nostri mezzi limitati, confondendo il coraggio con la temerarietà. Il resiliente non è incosciente, ma scava dentro se stesso per trovare un modo realistico di superare gli ostacoli. Resilienza è sia fare i conti con la propria impotenza sia vincere la paura del domani.
Troppo frequenti sono i casi di fragilità che osserviamo nei ragazzi e nelle ragazze che ci capita di incontrare e frequentare. Di fronte alle inevitabili difficoltà che la vita presenta loro, non è rara la tendenza ad arrendersi, a reagire aggressivamente, a piangersi addosso o a scaricare le responsabilità personale. Chi ha la fortuna di essere stato educato alla resilienza, tende a rialzarsi dopo una caduta, a riprendere il cammino e a non perdere di vista la meta. A me sembra un aspetto di grande importanza nella formazione del carattere, ma ho qualche perplessità su molti esempi di adulti che predicano bene e razzolano male perché so bene quanto i nostri figli siano sensibili alla coerenza tra il dire e il fare.