Ricomincio da trentatré
Si può morire in poco tempo per una malattia o morire lentamente per tutta la vita, senza averne consapevolezza. Ne è convinto Claudio Marinaccio, 39 anni, fumettista «e basta», come sottolinea da quando il cancro gli ha cambiato la vita. Nella sua precedente esistenza era uno scrittore e giornalista che scriveva per testate come «La Stampa», «Il Foglio», «Huffington Post», «Rolling Stone». «Ora collaboro ancora con i giornali, ma da fumettista “e basta!”». Una metamorfosi un tempo considerata azzardata, inopportuna, persino un passo indietro rispetto a una carriera ormai delineata, che lasciava però la matita nel cassetto, là dove di solito si lasciano i sogni. E invece il Claudio, che si risveglia dopo l’eliminazione del tumore, con 23 punti lungo il braccio destro e la mano che incredibilmente ancora si muove, non vuole più perdere tempo. «Se mi fosse successo solo qualche anno prima – riflette Marinaccio –, non ci sarebbe stata la microchirurgia e avrei perso il braccio e con lui la possibilità di disegnare». È un’altra chance, un altro giro di giostra. Ce n’è abbastanza per tirar fuori la matita dal cassetto: «Avrei raccontato la storia della mia malattia, a modo mio, senza censure né pietismi, ma soprattutto senza retorica, usando l’ironia e il fumetto». Nasce così Trentatré raggi ionizzanti (Feltrinelli) con in copertina un Claudio in miniatura dentro una navicella spaziale in un universo sconosciuto, pronto a puntare i suoi raggi alla vista dell’alieno.
Tutto comincia un giorno di tre anni fa durante una partita di calcetto: un compagno gli dà una gomitata al braccio destro, nel tentativo di sottrargli la palla. Un dolore lancinante, a cui segue un bozzo, che si rivela un leiomiosarcoma, un sarcoma dei tessuti molli. Un fulmine a ciel sereno, in un uomo di 36 anni e con un figlio di 5. «Tutto è cambiato all’improvviso – racconta –, tra l’altro stavo benissimo. E quindi la situazione mi sembrava ancora più assurda. Ma la testa ha cominciato a ragionare diversamente: ti rendi conto che la vita finisce e ciò si porta dietro un sacco di significati. Non invecchierò, non vedrò mio figlio crescere, non farò tutte le cose belle che avevo in mente di fare. È stato molto difficile». L’esistenza diventa un piano traballante, eppure Claudio non smette di cercare un nuovo equilibrio, senza nascondere le paure: «Ho provato a mantenere un limite di positività, o meglio di rendere più normale possibile quel viaggio che mi era piovuto addosso, anche attraverso l’ironia e l’autoiroinia». Ci tiene però a precisare che «non sono tra quelli che pensa che il cancro sia un dono. È una “roba” brutta, che ti vuole uccidere, ma che ti dà un microscopio, ti avvicina alla realtà, ti fa distinguere le cose importanti, ti offre la coscienza del tempo che è finito».
Maledetta retorica
Odia le frasi fatte, Claudio, gli eufemismi, tipo «brutto male», e le generalizzazioni: «Ognuno vive la malattia a suo modo e ha una sua intimità con essa. C’è chi si sente inadeguato, chi se ne vergogna, perché siamo una società afflitta dal senso di colpa. Io ho avuto sempre rispetto del mio corpo, per cui avvertivo che anche la malattia creata da me era parte di me. Cercavo di normalizzare anche questo aspetto». Nel fumetto Claudio arriva a parlare con il suo tumore e persino a prenderlo in giro, quasi come se oggettivandolo fuori dal suo corpo potesse in qualche modo circoscriverlo e controllarlo. «Avevo bisogno di scriverne, perché una cosa scritta diventa di tutti, non è solo tua». In qualche modo si crea una distanza, si toglie una sacralità, si elimina un tabù. «Questo libro mi ha liberato» conclude. La reazione degli altri alla malattia è uno degli aspetti più esilaranti del fumetto. C’è chi si sottrae, chi fa una battuta, chi si sente in dovere di dire qualcosa di significativo, in pochi sanno semplicemente ascoltare: «In molti casi chi cerca di consolare mette al primo posto se stesso; la cosa più strana che succede è che spesso sei proprio tu, il malato, a conoscere meglio degli altri la materia e a dover consolare chi ti sta attorno. Per fortuna ho una moglie dalla grande intelligenza emotiva, che ha saputo capirmi. Fondamentale, poi, lo sguardo di mio figlio: quando mi ha visto con i capelli rasati per la chemio, al contrario di tutti gli altri mi ha detto la verità, che ero brutto, trattandomi come una persona normale. Un toccasana, perché io non volevo essere compatito».
Ma ciò che è più insopportabile per Claudio è la «retorica del guerriero»: «Quando ti spronano a non arrenderti, a combattere, mi viene l’orticaria. In realtà tu non hai la possibilità di affrontare un nemico, di giocartela. Ciò che ti succede dipende da molti fattori. Ho visto morire compagni che avevano un atteggiamento molto positivo e ho visto sopravvivere persone prostrate. Odio quando scrivono che qualcuno “si è arreso alla malattia”, è ingiusto e inutilmente colpevolizzante». Il linguaggio andrebbe cambiato: «Non si tratta di “un male incurabile”, ma si tratta di un male “a volte inguaribile”. Le parole devono avere un peso, devono essere precise e più aderenti alla realtà» sottolinea il giornalista che è in lui. E invece siamo schiavi della retorica: «Potevo fare un fumetto che era un bagno di lacrime, mi avrebbero compatito, “poveretto a quest’età e con un figlio piccolo”, e magari avrei pure venduto più copie, per pietà. La mia sfida era l’opposto, volevo far ridere, perché quella comunque era vita e a tratti, al netto delle sofferenze, persino divertente e dai risvolti imprevedibili».
Un fumettista a fumetti
Un’esperienza che ti cambia la vita: «La puoi togliere dal corpo, ma non la togli dalla mente. Ci ritorni continuamente. E poi ci sono i segni tangibili: la cicatrice, i controlli. La fortuna è che dopo un po’ gli esseri umani si abituano anche alle cose peggiori e persino un cancro diventa normalità, un pezzo della tua storia. Comunque andrà». Giocarsi la seconda possibilità, questo, sì, appartiene a ciascuna persona che ha attraversato il cancro e che diventa finalmente cosciente del tempo finito. «Lo scrittore statunitense Philip Roth scriveva che per un narratore affrontare qualcosa di terribile e superarlo equivale a ricevere una manna dal cielo. Sono stato fortunato nella sfortuna, perché quel colpo al braccio ha rivelato il tumore, la medicina era avanzata abbastanza da poterlo trattare senza menomarmi, ho conosciuto persone di grande valore che altrimenti non avrei incontrato, tra i compagni malati ma anche tra i medici e gli infermieri. Ho guadagnato finora tre anni di vita. Ma soprattutto ho trovato il coraggio di fare delle scelte che forse nella cosiddetta “normalità” non avrei mai fatto. Tutti abbiamo un tempo limitato, anche se non ne siamo consapevoli, e il nostro tempo merita il coraggio del cambiamento, di intraprendere un cammino più prossimo alla nostra felicità. Disegnare fumetti è la mia felicità, il mio appagamento, mi permette di esprimermi nella maniera più congeniale, cambiando registro con estrema facilità, cosa che la scrittura non mi consentiva. Chiamami fumettista, anzi di più, in questo articolo metti un fumetto al posto della mia foto».
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