Sarti per caso
Mani d’uomo, abituate a tutt’altro, infilano il capo del rocchetto nell’ago della macchina da cucire con estrema concentrazione, altre creano i cartamodelli o ritagliano le stoffe, mentre intorno le raffiche delle cuciture sono contrappuntate dal suono delle forbici, dei rocchetti saltellanti, degli addentellati della macchina tessitrice. Intorno, il locale è un tripudio di colori, il pavimento a scacchiera, i muri verniciati di rosa e di verde mare, le stoffe rigate e con i disegni tradizionali della Bolivia. C’è molto di strano in questo laboratorio, che per giunta si chiama «Alegrìa»: mani d’uomo per un lavoro gentile, creativo, altruista come fare un vestito o una borsa per qualcun altro. Mani che forse hanno rubato, usato violenza, spacciato droga, addirittura ucciso.
Siamo nel posto meno «allegro» di La Paz, la capitale boliviana, all’interno del carcere San Pedro, il più affollato del Paese: 3.700 detenuti in una struttura che potrebbe ospitarne 800. Fuori dal laboratorio colorato c’è l’inferno del male fatto, ma anche la condanna di una vita senza speranza. «Purtroppo in Bolivia quando si commette un reato, anche il meno grave, per il quale sono previste pene alternative, il carcere rimane la prima opzione – spiega Marilia Marlene Chambi Mamani, coordinatrice dell’Associazione “Taller Solidario” e responsabile del progetto –. Le condizioni di vita sono molto difficili, specie per i più poveri e per coloro che sono abbandonati dalle famiglie. Per la legge, il carcere dovrebbe rieducare e favorire il reinserimento nella società, ma solo il 20% dei detenuti del San Pedro ha accesso a un qualche percorso di recupero, tanto che le recidive dopo la scarcerazione arrivano al 70%».
Eppure, Marilia Marlene ha visto con i suoi occhi tante rinascite: «Ricordo un ingegnere chimico colombiano che estraeva la cocaina dalla foglia di coca ed era riuscito a continuare l’attività illecita in carcere». Accedeva ai laboratori, finché un giorno è successo un fatto inatteso: «Fece il pane del suo Paese e la gente lo trovò così delizioso e diverso da restare a bocca aperta». Quel pane è diventato la sua nuova vita: «Oggi è un altro uomo».
Quel seme colorato che è il Centro Alegría ha, in origine, un cuore italiano: l’ha fondato nel 2002 padre Filippo Clementi, all’epoca cappellano del San Pedro, con il quale collaborava anche la psicologa volontaria Barbara Magalotti. E da allora ne ha fatta di strada. Oggi, dopo che padre Clementi è morto di covid proprio nella sua Bolivia, quel «bene fatto bene» è diventato patrimonio di una comunità. Marilia Marlene ha iniziato a lavorarci nel 2011: «Allora seguivo i bambini dei carcerati, che potevano vivere insieme ai genitori fino ai 16 anni. Ora non più, fortunatamente. Rimasi spiazzata dall’aggressività di quei piccoli, tanto che dopo tre giorni volevo andarmene. Poi ci ho ripensato e mi son detta “che senso ha essere un’educatrice se non me la sento di avere a che fare con bambini difficili?”. Così iniziai a mettere limiti e regole; pensavo che mi avrebbero odiato e invece hanno iniziato ad aprirsi e a partecipare, un’esperienza preziosissima anche oggi che ho a che fare con gli adulti. Non è l’assistenza o la compiacenza che funzionano, ma la capacità di offrire opportunità concrete per mettersi alla prova, per recuperare dignità e fiducia in se stessi».
Un lavoro costante e durissimo che meriterebbe più fondi e sostegno: «E invece, siamo soli. Purtroppo lo Stato considera il carcere una discarica umana. Per questo vi abbiamo chiesto di aiutarci con il progetto “L’arte del cucito dietro le sbarre”». I detenuti hanno aderito senza molta convinzione a «questa roba da donne». Il laboratorio però non faceva sconti: 160 ore, in 8 mesi, per 2 volte a settimana. Prendere o lasciare. E non solo avrebbe insegnato il lavoro di sarto ma anche dato le basi necessarie per aprire un’attività in proprio. Si è partiti dall’uso della macchina da cucire fino alla sua manutenzione. E poi il lavoro vero e proprio: le riparazioni, la realizzazione di complementi come borse e sciarpe, articoli per la casa, fino alle confezioni più raffinate come gli abiti de Cholita, i costumi tradizionali boliviani. «A un certo punto abbiamo dato a ognuno dei dieci detenuti del laboratorio il necessario per iniziare l’attività e una macchina da cucire da portarsi in cella: ogni oggetto creato veniva poi venduto dai familiari, generando un reddito alternativo». Accanto al lavoro, l’altro obbligo per i detenuti era di aderire a un modulo di «sviluppo personale», dove si rifletteva su diversi temi per rielaborare l’esperienza della detenzione e trasformarla in un progetto di vita. I corsi di microimpresa e di sviluppo personale sono stati aperti a un numero più elevato di detenuti, 30 per il primo e 60 per il secondo.
L’intero progetto, fatti salvi alcuni costi coperti localmente, è stato finanziato da Caritas sant’Antonio per un valore di 6 mila euro, a dicembre 2023. E quello del 2024 sarà il primo Natale in cui chi ha ricevuto un dono così insolito e importante, potrà a sua volta donare il frutto del suo riscatto. «Abbiamo notato nei detenuti una grande volontà di superarsi – commenta Marilia Marlene –. E non era semplice, visto che molti di loro erano machi duri e puri e mai avrebbero pensato di fare i sarti. E invece, strada facendo, si sono entusiasmati. Oggi non solo possono cucire i vestiti per sé e per la famiglia, ma possono pensare a un futuro, non tanto perché hanno un mestiere in mano ma soprattutto perché questa esperienza ha elevato la loro autostima. Se poi l’aiuto ricevuto viene da una realtà come Caritas sant’Antonio, cioè da gente lontana che ha creduto in loro nonostante tutto, come si può pensare di deluderla?».
Segui il progetto su www.caritasantoniana.org.
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