La buona moda
Alzi la mano chi non ha mai avuto la tentazione di acquistare o regalare uno di quei maglioni soffici e coloratissimi con renne e Babbi Natale, che costano pochi spiccioli. Per la verità quella del maglione natalizio non è tra le nostre tradizioni, ma sta prendendo piede anche da noi, importata dai Paesi anglosassoni e spinta dai social media. La ong ambientalista britannica Hubbub già nel 2019 aveva fatto una ricerca, in base alla quale aveva ipotizzato che in quell’anno i britannici avrebbero acquistato 12 milioni di maglioni di Natale nuovi fiammanti, pur avendone 65 milioni abbandonati nel fondo degli armadi, due quinti dei quali indossati una sola volta. Il 95 per cento di essi era fatto interamente o parzialmente di materiale plastico, principalmente acrilico. Un mini disastro ambientale, insomma, che si aggiungeva a quello planetario già in corso, in quanto – come dimostrato dall’università di Plymouth – un lavaggio di capi acrilici rilascia nell’acqua 730 mila micro fibre di plastica, cinque volte di più della fibra poliestere-cotone e 1 volta e mezzo il poliestere puro.
I maglioni di Natale non sono che la punta dell’iceberg di un fenomeno mondiale, che ci tocca da vicino e che a Natale, nonostante le buone intenzioni, peggiora notevolmente. Secondo Codacons, che ogni anno stila la classifica dei regali natalizi più gettonati, l’acquisto di vestiario o di accessori moda sta al primo o al secondo posto, a seconda degli anni, complice la varietà e la quantità di articoli di tendenza a basso costo, resi ancora più disponibili dalle piattaforme on-line. È tra gli effetti della fast-fashion, la moda ultrarapida, un trend iniziato al principio degli anni 2000 e che da 20 anni a questa parte ha avuto un vero e proprio boom. Se prima i grandi marchi di moda facevano uscire due collezioni all’anno, quelli della fast fashion, – tra cui i nomi più noti sono H&M, Zara, Bershka, Primark e, tra gli ultimi arrivati, Shein, il colosso cinese – ne sfornano di continuo. Il motore di tutto sono prodotti che seguono la moda, ma con qualità e quindi prezzi molto bassi, realizzati in Paesi in cui la manodopera è a bassissimo costo. Vestiti praticamente usa e getta, fatti in buona parte di plastica, che sono la terza causa d’inquinamento del Pianeta.
Ma non è esente da responsabilità neppure la moda con la «M» maiuscola, quella dei marchi più noti e persino del «Made in Italy»; sulla carta si seguono le regole, ma poi non c’è sufficiente controllo sui terzisti, a cui è affidata la produzione. «Senza andare tanto lontano, – denuncia Marina Spadafora, stilista e coordinatrice di Fashion Revolution Italia, autrice de La rivoluzione comincia dal tuo armadio (Solferino), insieme con la giornalista Luisa Ciuni – proprio in Italia la guardia di Finanza sta scoprendo sempre più fabbriche e laboratori, in cui la manodopera, fatta di immigrati cinesi e bengalesi, lavora 24 ore su 24, guadagnando una miseria e dormendo addirittura in fabbrica. Anche se non andiamo a produrre all’estero, di fatto abbiamo la Cina e il Sudest asiatico in casa, senza tutele per gli operai e garanzie di qualità e sicurezza sul prodotto».
Soffocati dal tessile
L’Agenzia europea dell’ambiente ha stimato che la produzione tessile mondiale è quasi raddoppiata in 20 anni, dai 58 milioni di tonnellate del 2000 ai 109 milioni di tonnellate del 2020, e si appresta a raggiungere i 145 milioni di tonnellate nel 2030. Ma, secondo Spadafora, i dati sarebbero ancora peggiori: «alcuni studi riportano che il tessile mondiale è cresciuto del 400 per cento in 20 anni», una produzione insostenibile, che lascia sul tappeto enormi problemi. Il più evidente è quello ambientale: per restare all’UE, il consumo annuo medio di prodotti tessili per ogni abitante dell’unione ha richiesto 400 m2 di terreno, 9 m3 d’acqua e 391 chilogrammi di materie prime, causando un’impronta di carbonio di circa 270 chilogrammi. Greenpeace rincara la dose: il 25 per cento dei vestiti prodotti rimane invenduto. Ogni anno soltanto nell’Ue finisce negli inceneritori e nelle discariche l’80 per cento dei 5 milioni di tonnellate di vestiti e calzature scartati, circa 12 chili a persona, mentre meno dell’1 per cento viene riutilizzato. «L’assurdo è che utilizziamo per tale produzione inutile 70 milioni di barili di petrolio a livello mondiale, che a questo punto potrebbero essere meglio impiegati in altri settori industriali e nei trasporti» aggiunge Spadafora.
Ciò che non riusciamo a smaltire finisce nei Paesi poveri. In Ghana, per esempio, ad Accra, c’è la discarica di vestiti più grande del mondo: un mostro ecologico, che arriva fino al mare, foderando le spiagge. L’ultimo rapporto di Greenpeace Africa denuncia che ogni settimana arrivano in città dal Grande Nord, ovvero dai Paesi ricchi, 15 milioni di capi, che finiscono per lo più in discarica perché privi di valore commerciale; una fonte d’inquinamento fuori controllo che ha stravolto persino la geografia della città e che sta lentamente avvelenando il mare e l’aria. La montagna di vestiti a livello globale minaccia anche la nostra salute. «I tessuti sintetici dispersi nell’ambiente si degradano in 200 anni, producendo microplastiche che, ingerite dai pesci, entrano nella nostra catena alimentare». Anche il semplice lavaggio dei tessuti sintetici è un danno enorme in questo senso, in quanto causa il 31% dell’inquinamento da plastica degli oceani. Altro punto interrogativo sono i processi di tintura: «In Europa gli azoici, ovvero i coloranti che contengono metalli pesanti, sono proibiti da tantissimi anni, ma non nelle regioni di produzione quali Africa, Sudest asiatico, Sud America; i controlli non ci sono e quindi ci ritroviamo negli armadi vestiti con coloranti azoici, i quali sono assorbiti dalla pelle, raggiungono il sistema endocrino, quello immunitario, quello riproduttivo».
La rivoluzione del portafoglio
Di fronte a tutto questo è lecito domandarsi se abbia ancora senso regalare un capo di vestiario a Natale. «Sì, nella misura in cui usiamo la testa – spiega Spadafora –. Prima di lanciarsi negli acquisti, è fondamentale fare un po’ di ricerca per capire come si sta comportando un dato brand rispetto a questi temi. Oggi è più semplice farlo, perché esistono delle App dedicate, come Renoon o Good On You, che analizzano i dati di sostenibilità ambientale, quelli sui diritti e sull’impatto sulla salute». Per quanto riguarda gli acquisti, esistono ormai molte alternative. «Qui a Milano ci sono giovani designer che hanno fatto una scelta etica, e ogni mese c’è un mercato con le loro creazioni, come Wunder MARKT e East Market. Comprare da loro è anche un modo per sostenerli e incoraggiarli. C’è poi Goooders, un negozio di brand etici, che ora è anche online. A Torino c’è Greenpea, il department store sul vivere sostenibile, ma artigiani e stilisti di moda sostenibile ci sono in tutta Italia, basta cercarli». Rimane sempre buona la scelta di acquistare un articolo bello e unico nei negozi di abiti vintage, ridando una seconda vita ai capi usati. In tutte queste opzioni al fondo c’è un cambiamento di mentalità: «È importante acquistare meno e preferire prodotti che durano, meglio se in materiali che si degradano, come le fibre naturali. Certo costa di più, ma i costi umani e ambientali della fast fashion anche se non sono calcolati nel prezzo, comunque ci sono».
Dulcis in fundo, una buona notizia: presto i consumatori europei avranno un mezzo di controllo in più: «Entro il 2030, la nuova strategia dell’Unione Europea per il tessile circolare e sostenibile entrerà in vigore. Ogni capo avrà una specie di passaporto digitale in cui l’acquirente potrà controllare i cinque passaggi principali di produzione: da dove viene la fibra o come è stata recuperata, dove è stata filata, dove è stata tessuta, dove è stata nobilitata e dove è stato realizzato il capo». L’impegno di ognuno di noi sarà comunque un fattore determinante per invertire la rotta: «Spesso dimentichiamo che abbiamo in tasca un’arma potentissima – conclude Spadafora –, che può cambiare le sorti persino dei colossi della moda: è il nostro portafoglio. A seconda di come spendiamo i soldi, determiniamo anche il mondo in cui vogliamo vivere».
Dono o regalo?
Donare è un atto costitutivo dell’essere umano, ma il dono non è il regalo, come ci spiega Lorenzo Biagi, filosofo morale, eticista e antropologo.
Msa. Che cosa significa donare?
Biagi. Donare significa desiderare di costruire una relazione importante con l’altro, offrire riconoscimento e vivere nel mutuo aiuto. La società umana nasce e vive grazie alla catena del dono. Il senso del donare non risiede nell’oggetto scambiato ma nell’alleanza e nel legame che il dono inaugura o rinsalda. Non dimentichiamo che tutta la nostra socialità primaria è basata e articolata sul dono: famiglia, parentela, amicizia.
In fatto di regali, che cosa non è dono?
Il regalo standardizzato e precostituito: si parla infatti di «articoli da regalo», che rispondono più alla giostra consumista. La logica del regalo non riesce a fare storia e a rigenerare legami magari divenuti sfilacciati. Certo, viene da dire che piuttosto di niente il regalo ha se non altro la capacità di rammentare la forza smarrita del dono.
Per fare un Natale in linea con il senso del dono a che cosa dovremmo prestare attenzione?
Il dono ha nel suo Dna l’intenzione di creare una società del riconoscimento e di una giusta ripartizione dei beni. Esso non è solo poesia né tanto meno «buonismo». Il dono presta attenzione a quelle persone che più sono dimenticate, espulse, violate dal nostro sistema di vita. E, a essere sinceri, siccome è il sistema consumista che butta fuori sempre più persone, a Natale dovremmo disertare i negozi sfavillanti e cercare doni che, tanto nella produzione quanto nella distribuzione, portano il marchio del mutualismo. In modo tale che, sia quando compriamo che quando doniamo, alimentiamo la catena del dono.
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