Pregare per Beirut
Alle 6.46 del 27 novembre, sedici minuti prima della tregua (avrebbe dovuto entrare in vigore alle 4 del mattino), caccia israeliani hanno bombardato la periferia Sud di Beirut e Hezbollah ha lanciato razzi verso il Nord di Israele. La guerra si ferma per almeno due mesi grazie a un faticoso accordo tra Tel Aviv, le milizie sciite e il governo libanese. Si torna alla risoluzione 1701 delle Nazioni Unite del 2016 che prevedeva una zona-cuscinetto nel Sud del Libano. Secondo Beirut in un mese di guerra sono morti oltre 3750 libanesi e un milione di persone sono fuggite dalle loro case dalle regioni meridionali del Paese. Molti di loro stanno già provando a tornare, ma un quarto degli edifici, nel Sud del Libano, è distrutto. Anche 60 mila israeliani potranno rientrare nei loro villaggi nel Nord di Israele.
È stato un mese orribile in queste terre. A Gaza la guerra continua. Nei giorni scorsi avevamo parlato con monsignor César Essayan, vescovo della Chiesa cattolica di rito latino a Beirut. Ecco di seguito il racconto di quella conversazione.
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Un aereo decolla mentre, a poca distanza, si alza una densa, insopportabile nube di polvere. Bombardamento israeliano. La compagnia di bandiera libanese, la Mea, Middle East Airlines, è la sola che ancora affronta atterraggi e decolli mentre infuria una guerra. L’aeroporto di Beirut è nella zona sud della città. Nella geografia confessionale della capitale libanese, questi sono quartieri a grande maggioranza sciita. Qui si trova (si trovava, distrutto dopo i raid di Israele) il quartier generale di Hezbollah, «il partito di Dio», organizzazione paramilitare e partito politico islamista sciita, gruppo considerato terroristico, secondo gli Stati Uniti, in guerra con Israele. Dal 24 settembre, l’aviazione di Tel Aviv bombarda Beirut e le regioni del Sud del Paese quasi senza pause. Il cielo libanese è attraversato ogni giorno dai droni, il loro rumore è intollerabile.
«Negli ultimi giorni i bombardamenti si sono intensificati. Avvengono anche di giorno, mentre di notte è impossibile dormire. Siamo stanchi e non riusciamo a vedere un futuro», la voce di monsignor César Essayan, francescano, vescovo della Chiesa cattolica di rito latino in Libano, ha il timbro di questa stanchezza. Alcuni anni fa sono stato ospite per alcuni giorni nella sua casa e lo ricordo come un uomo infaticabile, ottimista e allegro. Ma ora sta vivendo e lavorando in mezzo a una tragedia.
La popolazione sciita del Sud di Beirut è fuggita, ha abbandonato le proprie case. Il ministero della salute libanese ha contato, in meno di due mesi, settemila vittime in questa nuova guerra. Un quarto delle case delle zone sciite è stato distrutto. Un milione di persone, sui sei milioni di abitanti dell’intero Libano, è in fuga. Trecentomila si sono messe in cammino verso la Siria e l’Iraq. Nel centro città, nella grande piazza dei Martiri e sul lungomare della Corniche, sono sorte tendopoli e accampamenti, sono troppi gli sfollati, non si sa dove accoglierli. E sta per arrivare l’inverno anche a Beirut.
Negli ultimi giorni i bombardamenti hanno valicato le frontiere delle aree sciite: devastanti razzi israeliani hanno centrato un palazzo di otto piani nel pieno centro di Beirut. Gli abitanti non erano stati «avvisati», Israele voleva uccidere anche i nuovi leader di Hezbollah. Ha invece sepolto sotto le macerie più di venti persone, ne ha ferite oltre sessanta. E il quartiere di Basta al Fawqa, conosciuto per i suoi antiquari, è densamente popolato e i suo abitanti sono in maggioranza cristiani.
L’economia che aveva appena ricominciato a dare segni di rinascita è nuovamente devastata. «Voi vedete le macerie di palazzi, sono anche le rovine di mille e mille negozi, la fine dei commerci» spiega monsignor César. È un tessuto economico informale distrutto. In Libano, Paese di folli contraddizioni, il 70% della popolazione vive sotto la linea della povertà. Si riusciva a sopravvivere arrangiandosi dietro i sipari dei grandi palazzi e di ricchezze sfacciate. Drammatica la situazione di migliaia di lavoratori immigrati (da Etiopia, Sierra Leone, Sri Lanka, Bangladesh…): non hanno documenti (sono nelle mani dei loro padroni), vivono per strada e nessuno si prende cura di loro.
«Abbiamo aperto le nostre scuole, i nostri conventi» dice monsignor César. Le chiese (dodici confessioni cristiane, cinque musulmane) non possono arginare l’alluvione dei profughi. Nella chiesa di Tiro, città del Sud, a venti chilometri dalla frontiera con Israele, Toufiq Bou Merhi, parroco francescano, aveva ospitato oltre centotrenta persone, di fede sciita, che cercavano un rifugio. Schegge di bombe sono piovute sulla chiesa, hanno dovuto tutti abbandonare la città. Ricordo quel convento e il suo parroco: cinque anni fa, fra Toufiq lo aveva riaperto dopo venti anni, le finestre delle case del quartiere sciita si affacciavano sul chiostro della chiesa cattolica e lui invitava i suoi vicini a venire a trovarlo. Adesso il convento di Sant’Antonio è di nuovo vuoto. Deserto come la città di Tiro.
«Abbiamo bisogno di aiuti, è vero. E molte organizzazioni stanno aiutando questo Paese. Ma è il futuro che mi preoccupa, non riusciamo a immaginarlo. Dobbiamo riaprire le scuole, non possiamo lasciare bambini e ragazzi senza educazione: vivono aspettando le bombe, stanno crescendo nella paura e nel rancore. Non possiamo permettere che le nuove generazioni abbiano desideri di vendetta» avverte monsignor César. Il Paese rischia di spezzarsi ancora una volta, Israele soffia sul fuoco, bombarda quartieri densamente popolati e accusa Hezbollah di aver causato la guerra. Invita a combattere gli sciiti. Il ricordo della guerra civile e religiosa della fine del ‘900 è sempre vivo, è sempre un pericolo, una minaccia.
Cinque anni fa, rimasi stupito e felicemente sorpreso dalla presenza reale nella devozione religiosa di mar Mtannous Badawi, di sant’Antonio da Padova, in Libano. Conobbi allora un anziano frate, Massimiliano Chillin, aveva 96 anni: aveva viaggiato in ogni angolo del Paese e «censito» cinquantadue chiese libanesi dedicate al Santo. Allora mi sembrò una storia preziosa, colma di speranza. Coraggio, monsignor César, dobbiamo tenere accesa la fiammella del futuro nel suo Libano.
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