10 Novembre 2024

Ritorno all’eremo dei Piccoli Fratelli

Da oltre un secolo la congregazione religiosa sorta per ispirazione di Charles de Foucauld non ha mai abbandonato la montagna inospitale dove si erge l’eremo di pietra che sovrasta la piana sommitale dell’Assekrem, nel sud dell’Algeria.

Assekrem, ritorno all’eremo dei Piccoli Fratelli

Ritorno in Assekrem. Dopo molti anni. Annoto i mutamenti di questa montagna del deserto. L’ultima volta che ho raggiunto i suoi duemila e 780 metri vi era un solo rifugio dove poter passare la notte. Oggi vi sono nuove spartane costruzioni, vi è anche un’elegante casa «per il gran chef militare». La strada è rovinata dalle grandi e inusuali piogge di settembre. Il cammino per salire fino all’eremo e alla piccola casa di pietra dei Petits Fréres, congregazione religiosa sorta, agli inizi del secolo scorso, per ispirazione di Charles de Foucauld, è un ultimo strappo di salita: il sentiero è stato reso più agevole, si sale per ammirare il tramonto e l’alba, in un paesaggio di incredibile bellezza. E questa volta il Sahara di pietra ci ha riservato un dono, un privilegio raro: a settembre è davvero piovuto per ore, evento straordinario in questa terra arida, non pioveva da anni, sono caduti trecento millimetri di pioggia. Cambiamenti climatici anche in deserto. Ma i serbatoi di raccolta dell’acqua piovana ora sono colmi per i prossimi mesi. E la patina nera dei ciottoli vulcanici del deserto è quasi scomparsa sotto praterie color rosso-porpora: dopo quasi due mesi sono ancora fioriti i piccoli arbusti di abal, nome arabo di una pianta che produce minuscoli frutti che il vento disseminerà in attesa di nuove piogge.

Ben pochi tra i turisti europei che si arrampicano su questa pietraia di ciottoli neri sono consapevoli fino in fondo della follia sacra di questo luogo: nel profondo Sud dell’Algeria, nel 1911, un uomo solitario, che era stato soldato, esploratore, trappista e, infine, domestico in Palestina in un convento di clarisse, aveva costruito un eremo su un pianoro deserto privo di acqua e spazzato senza pietà dai venti gelidi del Sahara. Quel piccolo edificio di pietra, un modesto parallelepipedo, è sorto in uno dei cuori remoti di un Paese profondamente musulmano. Sovrasta ancora la piana sommitale dell’Assekrem. Oggi in Algeria i cattolici non sono che poche migliaia, quasi tutti migranti e stranieri. Negli anni della guerra civile algerina, l’orribile ultimo decennio del secolo scorso, la Chiesa algerina ha pagato con il sangue il suo coraggio. Centinaia di cristiani, un vescovo e diciotto sacerdoti furono vittime del terrorismo islamista. Ma i Piccoli Fratelli, da oltre un secolo, non hanno mai abbandonato questa montagna così inospitale. Sono ancora qui. All’eremo ci aspetta Bonaventura, padre Bonaventura. Quest’uomo, il viso scolpito dal vento, magro, barba ispida, indossa una vecchia giacca a vento e un cappellaccio di lana, sandali ai piedi: è spagnolo, ha scelto per sé il nome del biografo di Francesco d’Assisi. Sorride: «Sì, ma qui non siamo a Bagnoregio». Vive su questa montagna da ventidue anni.

L’altra volta non lo avevo incontrato, ma doveva già essere qua. Allora ero stato accolto da un vecchio pescatore bretone, père Alain, che, in età matura, aveva deciso di lasciare l’oceano per questo infinito mare di sabbia e rocce. Ci tenne a spiegarmi: «Guardatevi attorno, aspettate il tramonto, tornate per l’alba e vedrete la bellezza. Questo è il sacro». Charles de Faucould aveva scritto: questo è il paesaggio «più bello che si possa immaginare». E ancora: «Niente può dare l’idea della foresta di guglie, di picchi rocciosi ai nostri piedi. È una meraviglia. Non si può guardare senza pensare a Dio». Alain, allora, e Bonaventura, oggi, chiariscono subito: «Charles non era un eremita, non era un missionario. Non voleva convertire nessuno. Non voleva stare fuori dal mondo. Questo non era un eremo, era un luogo dove vivere. Voleva incontrare la gente di questa terra, Charles era un testimone». Qui si incrociavano le piste di questi deserti, queste erano aree di pascolo delle capre e dei dromedari dei tuareg, popolo del Sahara occidentale. Charles ne imparò la lingua e compilò, in quindici anni di lavoro immane, un dizionario Tamasheq-Francese, lungo 2028 pagine. Il libro fa mostra di sé nella piccola biblioteca dell’eremo.

Mi affaccio nella piccola cappella dell’eremo, ricordavo bene la pietra piatta in equilibrio sopra quattro pilastri, ho negli occhi pére Alain che, indossato un pesante saio bianco di lana ruvida, si sedette per terra a fianco dell’altare: sussurrò le parole di una messa dolcissima. Oggi, Bonaventura non ha tempo: la sua testimonianza, questa mattina, è per un folto gruppo di turisti francesi. I tuareg che vivono in questa terra non arrivano a ventimila. Qualcuno di loro lavora come guida, accompagnatore, autista, cuoco per turisti stranieri e algerini. Tremila sono pastori nomadi. Mustafà è la nostra guida, un targui di mezza età, dalla grande pancia e dai baffi bianchi, pelle scura, avvolto nel velo dello chèche. Parla inglese, non avrei mai indovinato il mestiere che ha fatto per venti anni: è stato controllore di volo a Tamanrasset, arruffata capitale di questo Sud algerino. Un targui, figlio di pastori, che sorveglia e guida il volo degli aerei! La contemporaneità.

Osservo la mole di Mustafà che si avvicina a padre Bonaventura. Un uomo del deserto, grosso e pesante, musulmano e allegro, abbraccia, con forza, un altro uomo, spagnolo, prete cattolico, magrissimo, serioso e ossuto. Ridono l’uno dell’altro, toccandosi pancia e ossa, quasi compiono un girotondo su loro stessi. Mentre il sole tramonta dietro una foresta di guglie di pietra.

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Data di aggiornamento: 13 Novembre 2024
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