Trieste, il museo degli scrittori
Le scrittrici e gli scrittori, romanzieri e poeti, non ti lasciano in pace a Trieste. Hanno rinunciato alla loro vita privata, ci permettono di seguirli, di sedere accanto a loro nei caffè, perfino di entrare nelle loro case. Piccole targhe disseminate per la città ricordano che James Joyce, al secondo piano di una palazzina al numero 4 di via del Bramante, riuscì a finire il primo capitolo dell’Ulisse e che, sempre qui, nel 1914, seppe che, finalmente, dopo vani tentativi, Dubliners sarebbe stato pubblicato. Ma bisogna scarpinare per seguire Joyce nei nove traslochi dei suoi anni triestini. Gabriele D’Annunzio, invece, si è seduto su una panchina in mezzo a piazza della Borsa: come sua abitudine è come se stesse esibendosi davanti a un pubblico.
Aron Hector Schmitz, Italo Svevo, è appena uscito dalla banca dove lavora e oramai è già arrivato in piazza Hortis. Lo seguo, sono certo che siamo diretti nello stesso luogo: a palazzo Biserini, dove si trova la confortevole biblioteca civica. Entrambi siamo incuriositi dal nuovo Museo della Letteratura, ribattezzato con un acronimo: Lets, che ha aperto lo scorso settembre. Svevo è atteso da Umberto Saba che, lasciata la sua libreria, con un gesto, gli dice subito: «Lets ha una scontrosa grazia». Svevo sorride, conosce bene questa frase del silenzioso libraio. Entrano assieme. Io, dietro a loro.
Una prima sala, lunga e luminosa, è occupata da un tavolo-bancone: si è avvolti da un colore rosso che dona subito una leggera euforia. Ai due capi del tavolone sono poggiati gli ultimi libri di Federica Manzon e Paolo Rumiz. Entrambi, quest’anno, hanno vinto il premio Campiello: Federica con il romanzo Alma, Paolo ha ottenuto il riconoscimento per la sua carriera. Due triestini (Federica è friulana, nata a Pordenone, ma, per adozione, è «una mula», una ragazza triestina) hanno ottenuto, lo scorso agosto, uno dei premi più ambiti per chi scrive.
Trieste è città di scrittori che hanno cambiato la letteratura e la poesia, hanno scritto pagine meticce e multietniche. Hanno scritto sul filo di una frontiera, di un confine. Da Claudio Magris a Boris Pahor (assidui per decenni dell’Antico Caffè San Marco), da Joyce a Fulvio Tomizza, da Italo Svevo a Bobi Blazen (un grande scrittore che mai ha scritto un libro, ma ha fondato l’Adelphi). Forse non poteva che sorgere qui, a un passo dal mare, in una città di vento, un Museo della Letteratura. Ricopio le parole di Federica Manzon che, alla domanda «perché scrivi di Trieste», risponde: «La scrittura è una interpretazione del mondo, e, per me, questa città è il punto di vista interessante da cui guardarlo».
Vorresti sfogliare tutti i libri lasciati distrattamente sul bancone, sederti sui divanetti rossi a fianco delle vetrate e ascoltare gli audiolibri, vorresti avere il tempo per leggere ogni pagina, seguire ogni storia. Aprire i cassetti che racchiudono la storia di ogni scrittore. «È impossibile, dovete scegliere, tornare più volte, prendervi tempo», mi spiega il «libraio» di questo museo. Me ne rendo conto. E allora, anche se io non amo i feticci, osservo la macchina da scrivere Triumph di Boris Pahor; non mi sorprende che il primo libro letto da Magris sia stato I misteri della jungla nera di Emilio Salgari, nelle edizioni di Vallecchi; sul comodino della stanza d’albergo dove morì Blazen c’erano un pacchetto di sigarette Nazionali, un’agenda, i suoi occhiali e un orario ferroviario.
Ma quanti scrittori ci sono a Trieste? Hanno popolato il ‘900 e continuano a scrivere instancabilmente in questo nuovo secolo. Ogni città ha il suo noirista, qui è il tedesco (anche lui ha scelto questa città per viverci) Veit Henichen. I luoghi dei suoi libri sono già meta di pellegrinaggi. Scopro che l’emiliano Diego Marani, inventore di lingue artificiali, ha seguito per Trieste le orme di Svevo. Mi innamoro di nuovo di Luigi Nacci, camminatore della viandanza, che si inerpica, nel suo primo romanzo, pubblicato pochi mesi fa da Einaudi, sui passi della fine di un amore.
Poi ci sono gli autori sloveni e tedeschi. Altri ancora scrivono in triestino, una lingua franca. Si diventa poliglotti in questa città. Oltre il salone-ingresso, c’è una piccola sala cinematografica: proietta i film, quasi sempre tratti dai libri che abbiamo appena sfogliato, capaci di raccontare Trieste. Ne guardiamo brevi spezzoni in un abile montaggio.
E poi, una di seguito all’altra, ecco le stanze che non potevano mancare, sono dedicate alla trinità della scrittura triestina: Joyce, Svevo, Saba. Piccole sale su cui mai si poserà la polvere: il mare, il Carso e, soprattutto, la bora hanno modellato i loro giorni passati a scrivere. Verso l’uscita sfioro l’edicola che raccoglie i giornali e le riviste che raccontano di Trieste. Vorrei portarmeli via e sfogliarli al caffè Tommaseo, il più antico della città.
Non c’è più tempo, non c’è più spazio. Quante ore sono passate da quando sono entrato qua dentro? Umberto Saba mi accompagna verso l’uscita. Lascio la mia firma sulle pagine del «libro degli ospiti» e mi accorgo che molti di coloro che mi hanno preceduto, hanno scritto: «Dobbiamo tornare». Sì, ho ancora mille storie da leggere.
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