Le radici dimenticate
Se non sappiamo da dove veniamo come possiamo sapere dove andiamo? Gira tutto intorno all’importanza delle origini il nuovo film di Gabriele Fabbro Trifole. Le radici dimenticate. Uscita nelle sale il 17 ottobre, la pellicola ambientata in un paesino delle Langhe, segue i passi di Dalia, una giovane ragazza cresciuta a Londra che torna nel luogo delle sue radici per occuparsi del nonno Igor, un trifolao (raccoglitore di tartufi) affetto da demenza senile. Nonostante la difficoltà di comunicazione, tra leggende e paesaggi da favola, la protagonista – complice un’avventura alla ricerca di un tartufo gigante – ritroverà se stessa tra quelle colline e quei boschi. Ci siamo fatti raccontare questo splendido film molto intimo e dal sapore antico direttamente dal suo regista…
Msa. Come è nato il film?
Fabbro. Tutto ha origine da una curiosità infantile che ha preso forma quando, da piccolo, andavo a mangiare il tartufo al ristorante. Dopo cena c’era sempre il cameriere o lo chef che venivano a spiegare come quel tartufo era arrivato sulla tavola. Raccontavano le storie dei trifolai (in dialetto piemontese trifulau), questi personaggi un po’ strani e misteriosi, dei nonnetti che andavano a caccia di tartufi, senza mai svelare i loro segreti. Io mi sono molto incuriosito e da lì, molto tempo dopo, sono andato nelle Langhe a raccogliere testimonianze. Tanti dialoghi del film sono tratti da quello che i trifolai mi hanno raccontato. Ad esempio, ciò che spiega Igor sulla deforestazione, sul fatto che una volta nelle Langhe al posto delle vigne c’erano solo alberi, me l’ha detto, con la stessa intensità, proprio un trifolao. In questo senso, ho affrontato la scrittura del film con un approccio quasi documentaristico.
Nel film due generazioni – rappresentate da nonno e nipote – parlano due lingue diverse e faticano a comprendersi. Quanto è ampio oggi, a suo avviso, il divario tra giovani, adulti e anziani?
È ampissimo. Non a caso abbiamo aggiunto la barriera della lingua diversa per sottolineare la cosa. Il sistema moderno ti spinge ad allontanarti dalle tue radici. La giovane Dalia ha vissuto in un mondo completamente diverso e deve riscoprire quello delle sue origini. Le conversazioni con suo nonno Igor, inoltre, mi ricordano molto quelle che facevo con mio nonno. Se nel loro caso la mancanza di comprensione deriva dalla lingua, nel nostro caso c’era di mezzo la malattia. Mio nonno, infatti, era affetto dal morbo di Parkinson. Anche Igor, d’altra parte, è malato, soffre di demenza senile. Non a caso c’è molto di mio nonno in quel personaggio.
Lei ha più volte dichiarato di essere attratto dai personaggi che vivono ai margini e dalle comunità che stanno scomparendo. In questo caso, porta sullo schermo i trifolai che, sulle Langhe, sono sempre meno. Cos’hanno da insegnarci questi personaggi d’altri tempi?
Questi cercatori che fanno letteralmente una caccia al tesoro ogni notte nei boschi vivono ogni volta un’avventura. Tutti quelli che ho incontrato hanno un rapporto d'amore molto forte con gli alberi, li chiamano persino per nome. Da loro ho imparato che l’uomo è parte della natura, può solo adattarsi a essa e prendersene cura. Oggi, complice anche il cambiamento climatico, i tartufi nelle Langhe sono sempre meno, e così stanno scomparendo anche le antiche generazioni di trifolai, quelle che – come Igor – amano il loro mestiere e lo fanno per passione. Ormai la caccia al tartufo è diventata un business, a volte persino una guerra tra cercatori (con tanto di scorrettezze, furti e avvelenamento di cani, ndr).
Con la troupe avete girato in un ambiente ricco di natura, storia e cultura. Quanto hanno influito la location e gli abitanti nel risultato finale del film?
Molte persone del cast vivono lì nelle Langhe. Ho cercato il più possibile di coinvolgere gli abitanti del posto, di conferire veridicità al film. Si tratta di persone animate da una grande gioia di vivere e di raccontarsi, non si poteva non parlare di loro. Quanto alla natura, nel film si respira una calma che è propria dei paesaggi delle Langhe. Da qui la decisione di mantenere la macchina da presa ferma sulle inquadrature di paesaggio, limitando i movimenti al minimo. E poi la luce… nelle Langhe la luce è magica. Questi fasci che penetrano nelle case… Alla fine la vera protagonista del film è sicuramente la natura.
Qual è stato lo scoglio più difficile da affrontare durante le riprese?
Ricordo un giorno molto faticoso. Quello in cui abbiamo girato la ricerca del tartufo. Era novembre e si gelava. Tutta la troupe riunita nel bosco... Avevo preparato degli storyboard, perché di solito io lascio poco all’improvvisazione, ma in quel caso ho dovuto fare un’eccezione. E così siamo finiti tutti al seguito del cane che doveva trovare il tartufo…
Il finale del film mostra come un fallimento possa divenire, in realtà, un successo.
Grazie alla sua esperienza, Dalia capisce che il fallimento fa parte della nostra crescita. L’importante è sapere chi siamo e da dove veniamo, non si può costruire nulla senza questa consapevolezza. Tutto sta a vivere invece di aspettare che le cose accadano, senza mai sporcarsi le mani. La modernità ci dice che dobbiamo essere sempre perfetti. Da qui la paura di non essere adatti, che mai niente è abbastanza. Alle nuove generazioni, invece, bisogna insegnare che va bene anche sbagliare!
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