Fosco Maraini e l’empresente
Chiunque abbia mai tenuto in mano una macchina fotografica (ma vale anche per la fotocamera dello smartphone) lo sa bene: la vita è fatta di attimi. Sta all’occhio dietro l’obiettivo catturare quelli più significativi, quelli che, tra routine e tempi morti, sanno far vibrare il cuore e l’anima. Un’impresa complessa, che – da quando l’ottava arte ha visto la luce – a pochi è riuscita. Tra questi pochi si è guadagnato un posto anche Fosco Maraini, viaggiatore, etnologo e scrittore fiorentino, appassionato di alpinismo e fotografia. È proprio per rendere omaggio a quest’ultima sua inclinazione che il Museo delle culture di Lugano (MUSEC) ospita, nei due piani nobili di Villa Malpensata, «L’immagine dell’empresente. Fosco Maraini. Una retrospettiva». Aperta fino al 19 gennaio, la mostra offre un excursus nella vita del fotografo toscano a vent’anni dalla sua scomparsa. Protagoniste dell’esposizione: 223 fotografie, alcune delle quali inedite, scattate tra il 1928 e il 1971 in Europa e in Asia, reperite grazie alle migliaia di negativi conservati nell’archivio del Gabinetto Vieusseux di Firenze.
Curato da Francesco Paolo Campione, direttore del MUSEC, il percorso si snoda in quattordici sezioni attraverso immagini di uomini e culture, paesaggi, architetture d’interni, particolari naturalistici. Ad accomunarle tutte il fatto di essere state carpite nell’empresente, ovvero, come spiega il curatore nell’introduzione al catalogo della mostra, quel «momento in cui il soggetto conoscente ha percepito e descritto la realtà in cui tutti noi siamo immersi (…). Il presente che emerge, l’attimo in divenire in cui si materializza l’esperienza». «Fra gli infiniti presenti ce n’è uno che sta a ridosso della sottile e ignota barriera che ci separa dal futuro – spiegava nel 1995 Fosco Maraini, durante una conversazione con Francesco Paolo Campione –: è il momento stesso in cui noi due stiamo parlando o – se vuoi – quello immediatamente percepito da chi leggerà queste righe. Esso emerge di attimo in attimo, non ha nulla di teorico o grammaticale, è – in qualche modo – l’attimo fuggiasco in cui si materializza l’esperienza, e in cui io ne entro in possesso. La sua restituzione, anche parziale, sotto forma d’immagine, consente di comunicare all’esterno il momento in cui il soggetto conoscente ha percepito e descritto la realtà in cui siamo immersi».
Ma come mai un dottore in Scienze Naturali (si laurea nel 1938 all’Università di Firenze), fine antropologo e scrittore (famose le sue Fànfole, divenute un classico della poesia nonsense italiana), sceglie proprio la fotografia per indagare l’esperienza? «All’inizio – risponde Francesco Paolo Campione nel catalogo della mostra – la fotografia fu per Maraini un surrogato del disegno, tecnica che aveva ben presto capito di non poter padroneggiare come il padre Antonio (1886-1963), scultore cui “bastava un pezzo di carta e un carboncino per creare in pochi minuti, dal nulla, un ritratto incantevolmente somigliante o una scena di vita che balzava gioiosa agli occhi».
L’arte tuttavia ha molte facce, e il giovane Fosco – armato inizialmente di una rudimentale fotocamera Kodak Brownie n. 2 – lo impara in fretta. La sua passione per i viaggi e la natura, mista a una innata curiosità, lo spingono sempre più lontano da Firenze, dove è nato nel 1912. Dall’Europa all’Asia, il mappamondo diventa la sua tela da dipingere. Anche se, per il maestro, «disegnare con la luce» (questa l’etimologia di fotografare) è un’arte a sé. «Come il cinema non è un teatro in minore, ed è invece qualcosa di potentemente nuovo e originale, così anche la fotografia non è una pictura minor, ma un mezzo autonomo e libero di esprimere impressioni, sentimenti, ideali. Cioè essa è una forma d’arte» (Maraini alla conferenza del 1° giugno 1935 al Circolo della Stampa di Palermo, da La Gazzetta della Fotografia. Rivista mensile di fotografia pratica). E ancora: «Una fotografia non è un fotogramma. Essa è qualcosa di statico, di definitivo direi. Non deve desiderare né il futuro né il passato. Non deve giustificarsi in altro che in se stessa (…). Essa è perfettamente libera: perfettamente indipendente. Ha, infine, una sua dignità. Ecco il senso della frase “la fotografia è un’arte”» (Dignità della fotografia, 1937, articolo pubblicato in Cinema. Quindicinale di divulgazione cinematografica, anno II, vol.I, n.24).
Sempre in movimento
Circondato da una ragnatela di corde e nodi, un giovane marinaio si arrampica a piedi nudi Verso la coffa (piattaforma semicircolare in cima all’albero di un veliero). È il 1934 quando Fosco Maraini cattura questa immagine a bordo della nave scuola della Marina italiana «Amerigo Vespucci». Si trova lì in veste di maestro d’inglese dei cadetti, ma ben presto questa crociera nel Mediterraneo Orientale si trasforma nel suo primo vero reportage di viaggio. Il giovane fotografo ha ancora poca esperienza alle spalle: qualche anno prima ha immortalato piante, insetti, funghi in macrofoto naturalistiche (Mughetto, 1930); e ha sfidato la forza di gravità, seguendo l’amico Bernardo Seeber su un traliccio (Pericolo di morte!, 1928). La sua attrazione per le altezze trova terreno fertile nel 1937, quando Fosco accompagna l’orientalista Giuseppe Tucci nella sua sesta spedizione in Asia. Dall’India al Sikkim, fino in Tibet, Maraini documenta paesaggi montuosi e persone incontrate lungo la via. Immortala la città tibetana di Gyantsé da uno dei poggi che la circondano, ritrae una Musicista girovaga col suo tamburo e ci presenta La principessa Pemà Choki Namgyal, secondogenita del monarca del Sikkim (Tashi Namgyal), donna di grande bellezza e cultura.
A prescindere dal luogo in cui si trova, per Fosco raccontare uomini, donne e bambini immersi nella loro cultura e nelle loro tradizioni resta una priorità. Come quando, tra il 1952 e il ’53, insieme all’editore Diego De Donato attraversa l’Italia del Sud e sorprende gli operai al lavoro nella Cava di tufo di Siracusa, in Sicilia. O quando racconta un Giorno di bucato per le strade di Napoli, con tanto di file di panni stesi sopra le teste dei passanti. Dal Belpaese alla Grecia, nel giugno del 1951 il fotografo cattura la curiosità di due contadine musulmane (Nuovi miti) davanti al cartellone pubblicitario del film Le mura di Gerico (1948). Una scena di vita quotidiana, come quelle che realizza nei suoi viaggi in Giappone. Alla patria del Sol Levante la mostra di Lugano dedica tre sezioni. La prima, Un citluvit atterra in Hokkaido (1939-1971), si sofferma in particolare sugli Ainu, popolo di origine siberiana, nonché la più antica etnia del Giappone, che Maraini studia fin dal suo trasferimento nell’isola di Hokkaido, grazie a una borsa di studio erogata da un’agenzia governativa giapponese. Fanno parte di questa raccolta i Bambini che corrono sul lago Kutcharo e l’anziano protagonista di Saluto all’ospite (1953-’54). «Questo è Ushungesh, capo di Shiraoi, un villaggio lungo il mare dove ormai sono rimasti pochi Ainu», scrive Maraini che, in ogni sua foto, mantiene sempre uno sguardo lieve e ironico, quasi fosse un cittadino della Luna in visita d’istruzione sulla Terra (da qui l’acronimo citluvit).
Il viaggio in Oriente prosegue con L’eterno Giappone attraverso le consuetudini e il sistema sociale di un Paese refrattario ai cambiamenti. Osserviamo l’esercitazione acrobatica di un pompiere durante le feste di Capodanno (La lotta contro il nulla, 1963), la posa impettita di un bambino intento a leggere il giornale (Sete di sapere, 1953-’63) e lo sguardo di attesa di una ragazza in kimono Pronta per scendere dal treno (1963). Infine Maraini ci porta sull’isola di Hèkura alla scoperta del popolo Ama, in particolare di quelle donne a cui da generazioni spetta la pesca del mollusco awabi (Giù, decisamente giù, 1954; Riposo tra un’immersione e l’altra, 1954). Per questo reportage subacqueo, rigorosamente in bianco e nero, come del resto la maggior parte dei suoi scatti, il fotografo mette a punto uno scafandro per la cinepresa e le fotocamere. La tecnica per Maraini è ingrediente fondamentale della sua arte. Sia che debba riprendere sott’acqua, sia che si trovi tra le vette innevate.
La montagna, insieme col Giappone, è l’altro grande amore di Fosco. Un amore iniziato molto presto, quando da adolescente si arrampicava sulle Alpi Apuane, salvo poi passare all’Appennino tosco-emiliano, alle Dolomiti, all’Etna, all’Himalaya, fino alle Alpi giapponesi e al Monte Fuji. Non a caso una sezione della mostra svizzera s’intitola Karakorum e altre montagne. È il 1958 quando Maraini si unisce alla spedizione del Club Alpino Italiano al Gasherbrum IV, nel Karakorum. Ogni occasione è buona per il fotografo per puntare sempre più in alto. Ma la vetta non rappresenta solo una sfida con se stesso. La montagna è fatta anche di relazioni e di persone: «Dai compagni di cordata ai pastori, dalle grandi guide agli umili custodi dei rifugi, dai lama eremiti ai portatori balti, chitrali o sherpa». E così, tra crepacci, creste e canaloni innevati, Maraini ritrae anche corpi in movimento o in contemplazione (Crepaccio gigantesco, 1959; Il passo Dukadak, 1959; Grotta di ghiaccio, 1958; Una durissima salita, 1959), senza scordare gli abitanti delle valli alpine sulla sinistra dell’alto corso del fiume Kunar.
È una spedizione CAI sul Picco Saraghrar, nella catena dell’HinduKush, a offrire l’occasione di incontrare i Kalash. Maraini non se la lascia sfuggire e documenta questa antica popolazione di religione sciamanica tra scenari arcaici e grandi sculture di legno (Bimbetta cafira, 1959). Dalle statue pagane del Pakistan al volto del bodhisattva divorato dalla foresta nei pressi del tempio di Ta Som ad Angkor (fine XII secolo), in Cambogia, passano solo pochi anni. Ancora una volta Maraini si fa testimone silenzioso e arguto di culture, tradizioni, storia e bellezza. «Mio padre Fosco era dotato di un occhio di falco. Ma era un falco sognante» ricorda la figlia Dacia Maraini. «Un occhio capace di vedere ogni epoca – aggiunge la moglie Mieko Namiki Maraini, in conversazione con Maria Gloria Roselli –, di osservare ogni luogo della Terra. Anche chi non ha letto i suoi scritti, guardando le sue foto potrà capire chi è stato Fosco Maraini».
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Nella foto, da sinistra: Cava di tufo. Sicilia. Siracusa. 1946-1953. Copyright: Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux; [Sete di sapere]. Giappone. 1953-1963. Copyright: Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux; [La principessa Pemá Chöki Namgyal]. India. Sikkim. Passo Nāthū Lā. 27 febbraio-18 maggio 1948. Copyright: Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux.