Una regista per l’Ucraina
24 febbraio 2022. Quando più di due anni fa iniziò l’invasione russa in Ucraina, oltre alla paura e al senso di impotenza, si diffuse subito tra gli abitanti il bisogno di reagire. A fronte di migliaia di persone con figli a seguito corse a prendere il primo treno per fuggire dalla guerra, altrettante rimasero a difendere la propria terra, con le armi, ma anche con ogni mezzo a disposizione, compresa una telecamera. È il caso di Olha Zhurba, giovane regista diplomata alla I. Karpenko-Karogo National University of Theatre, Film and Television di Kiev che ha deciso di mettere il proprio talento al servizio del suo Paese, documentando quanto stava accadendo in Ucraina. Il risultato di due anni di riprese è Pisni Zemli, Shcho Povilno Horyt’ (Songs of slow burning earth): 95 minuti di storie, inquadrature fisse e dettagli per non dimenticare. Un ritratto collettivo già presentato lo scorso settembre all’81^ Mostra del cinema di Venezia, ma anche un regalo per le generazioni che verranno. Ne abbiamo parlato con la regista Olha Zhurba, già autrice di Ukrainian Factory (2024), Outside (2022) e Dad’s Sneakers (2021).
Msa. Ricorda il momento in cui ha deciso di girare un documentario su quanto stava avvenendo nel suo Paese?
Olha Zhurba. Quando è iniziata l’invasione su larga scala si è diffusa tra noi una sensazione apocalittica, qualcosa che finora avevamo conosciuto solo nei libri e nei film. Anche se, in realtà, dopo il discorso di Putin del 21 febbraio, per me era chiaro che la guerra sarebbe iniziata. Quando questo si è verificato mi sono chiesta cosa potessi fare per il mio Paese. Non volevo andarmene, ma volevo rendermi utile. Così sono partita da quello che mi riesce meglio: filmare, con l’obiettivo di testimoniare quanto stava accadendo. Insieme alla troupe abbiamo iniziato a catturare la realtà sottoforma di filmati d’archivio, che forse un giorno saranno utili ai ricercatori o alle future generazioni. Mentre tutto intorno l’universo correva veloce, il treppiede ci ha permesso di girare immagini stabili e di guardare la realtà un po’ più da lontano. La telecamera è meno emotiva di noi e di tutto ciò che abbiamo dentro.
A cosa rimanda il titolo del documentario Songs of slow burning earth?
Il film è diviso in capitoli e ogni capitolo è come fosse una canzone che rappresenta la società. Quando ho pensato al titolo del documentario, volevo che risultasse significativo anche per il pubblico internazionale. La terra che brucia lentamente è metafora della guerra. E in questo contesto, ogni canzone è una storia che si diffonde in lontananza e giunge a voi, proprio come gli echi della guerra. Mi piace pensare che, se il film piacerà alle persone in sala, continuerà a bruciare nei loro cuori anche dopo.
Nel lungometraggio non si vedono mai cadaveri. Come mai?
La scelta di non mostrare corpi, ma solo macerie e dettagli della guerra deriva dal fatto che lasciare oltre il frame l’orrore risulta più potente, perché chiama in causa l’immaginazione di ciascuno. Inoltre, a mio avviso, l’arte è troppo debole e non esiste un linguaggio per spiegare davvero l'esperienza della guerra.
Il documentario racconta dettagli, sensazioni, ma anche storie di una società in trasformazione. In che modo la guerra ha cambiato la popolazione ucraina?
Da cittadina ucraina quale sono, ho avvertito anche io la grande trasformazione che sta avvenendo nella società. Quando abbiamo iniziato questo ritratto collettivo di aggregazione ho voluto raccontare una società che sta cercando di adattarsi accettando anche l’idea della morte. Siamo diventati tolleranti rispetto a questa prospettiva, il che credo sia una cosa orribile. Anche perché ogni giorno, in ogni famiglia ci sono vittime della guerra e civili che diventano soldati. Ho scelto così di raccontare nel documentario storie personali che riguardano gran parte della nostra società. Ad esempio, la storia di una art manager divenuta soldato e di molte altre persone che, provenienti dall’ambiente del business, hanno imbracciato le armi. La maggior parte di chi combatte non era soldato, ma non ha avuto scelta. Tutti noi vogliamo essere indipendenti e poter difendere la nostra terra e le nostre famiglie. In questo senso, le storie raccontate nel film rappresentano tanti aspetti e conseguenze della guerra connessi tra loro.
Come può la guerra diventare la normalità?
Penso che per la nostra generazione, che sta affrontando la guerra, sia impossibile comprenderla pienamente e riflettere su di essa. Sarà compito delle prossime generazioni analizzarla attraverso diversi fattori per guarire, perché è impossibile guarire quando hai delle ferite nuove ogni giorno. Oggi la trasformazione della nostra società rispecchia il nostro modo di affrontare la guerra in tutte le sue orribili circostanze. Ci siamo adattati al pericolo. E in particolare i giovani sono diventati molto più saggi e consapevoli di noi. Portano sulle loro spalle un’esperienza unica di accettazione. Penso alla figlia di un mio amico, di 7 anni, che – mentre stava andando a dormire – ha chiesto al padre: «Papà se il missile ci colpirà moriremo tutti subito o sarà una cosa lenta?».
Che ruolo ha avuto finora la fede per chi è rimasto in Ucraina?
Io credo esistano forze molto potenti e mistiche dentro di noi. La fede ora, in Ucraina, è un elemento cruciale. So, per esempio, che, dai soldati al fronte fino ai fedeli in chiesa, stanno tutti pregando. La fede è come un nucleo dentro di noi.
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