La forza della bora
Tutte le volte che, in questi anni, ero venuto a Trieste avevo cercato la bora, vento leggendario. Non ero mai riuscito né a farmi afferrare, né a saltarci addosso. Nel tempo, qui, nella punta più settentrionale dell’Adriatico, ho provato gli scossoni dello scirocco e una volta perfino il pericoloso libeccio, ma il vento simbolo e anima della città non aveva mai corso per me. Fino a questa primavera. Fabio Tufano, antropologo piemontese, trapiantato a Trieste per «merito» della bora, mi avverte: «Domani soffierà. Poco, ma soffierà». «Arrivo» rispondo. Una bora d’aprile. Una bora «calda». Un borin, dicono i triestini. Per me, che cerco un equilibro tra le folate nella nudità del molo Audace, è una prova di volo. Pianto i piedi per terra e cerco di non farmi portar via. «La bora mi rende felice», mi grida un ragazzo che pedala sulle Rive sbandando.
Vado a trovare chi, da oltre vent’anni, raccoglie i venti del mondo e le storie della bora. Mi proteggo tra i vicoli della Cavana, il piccolo labirinto della Città Vecchia, ai piedi della brusca Salita al Promontorio. Cerco via Belpoggio. Qui, al numero 9, la bora, quando non esce per correre verso il mare, ha trovato un rifugio tranquillo: un magazzino, un piccolo museo, un caravanserraglio dove, ogni tanto, si ritrovano altri venti della Terra. Su uno scaffale ne sono conservati (in bottigliette, in vasetti, in bicchieri tappati, in piccoli contenitori) oltre quattrocento. Ricordo che la prima volta che entrai qua dentro, molti anni fa, ve ne erano cinquantasette. Adesso il mondo è percorso da «ambasciatori eolici», che hanno saputo di questa collezione e da allora raccolgono venti in ogni parte del mondo e li spediscono al Museo della bora nel cuore di Trieste. Prendo in mano, con cautela, una piccola bottiglia che proviene dalla Mongolia: arriva dalla voragine del vulcano Khorgo, si dice che dal suo cratere siano usciti tutti i venti della Terra.
È affollato e tranquillo il magazzino dei venti aperto (sempre con prudenza, per evitare che fuggano via) da Rino Lombardi, lucano trapiantato fin da piccolo in questo estremo Nord-Est italiano, nel 2004. Qui arrivano, come in pellegrinaggio, tutti gli amanti dei venti. E i triestini che, se vivono lontano, hanno nostalgia della bora. «Non soffia più come una volta», raccontano quando sono preda di una malinconia. Fabio Tufano, che ha dedicato alla bora il primo libro di antropologia dedicato a un vento, mi rassicura: «Mi dicono che si va a periodi: per anni la bora si nasconde, poi riappare». Carla Reschia, una giornalista, un’altra piemontese che vive a Trieste, una volta, mi raccontò che la bora «è un vento femmina. Imprevedibile e selvaggia». A volte pericolosa, ma in tanti, a Trieste, l’aspettano per un anno, le fanno dichiarazioni di amore, salvo poi maledirla se soffia, come nel 2012, per due settimane di fila. O come quel febbraio del 1954 quando la sua violenza raggiunse i 171 chilometri orari prima di spezzare l’anemometro.
La bora «è lo spirito», l’anima di Trieste, è «molto più che un vento». Ha costruito un intreccio di relazioni, di vite ostinate e felici di vivere in questo golfo, ha mosso l’intelligenza e la fantasia degli artisti, ha modellato la vita sociale degli abitanti. La bora ha soffiato in decine e decine di pagine di scrittori triestini e no. Giani Stuparich la guardava nascere con fremiti addosso, e correva a scrivere che con il passaggio violento del vento «i moli liberavano le loro sagome forti e squadrate dal velo tenero della nebbia; nei bacini l’acqua del mare prendeva colore e moto. Una freschezza, un ringiovanimento da per tutto». Al contrario il tedesco Peter Handke detestava quel vento: «Un unico sibilo gelido là sull’altopiano, che ti priva d’ogni profumo e non ti fa più vedere né sentire».
Nel Museo della bora sono conservati strumenti eolici, video, giochi, manifesti, cartoline, anemometri, girandole, ci sono oltre quattrocento libri e video che narrano i venti della Terra, le pagine dei giornali che narrano le loro imprese. Da qui, da via Belpoggio, può cominciare un viaggio mediterraneo, magari inseguendo il mistral e il meltemi, altri venti che hanno influenzato la vita degli uomini e delle donne delle isole greche e del meridione francese.
Usciamo dai ripari offerti dai vicoli della Cavana. Torniamo sul molo Audace. Qui bisogna andare per ammirare la bora che atterra oltre le banchine dei moli di Trieste. Vento catabatico, vento «di caduta», vento di terra: soffia da Nord-est, approfitta della «porta di Postumia», varca le Alpi Giulie e irrompe verso l’Adriatico. Non alza grandi onde: guardo i «gattini», creste di schiuma bianca, che corrono veloci, una dietro l’altra, spinte dalla bora. In fondo al molo ci teniamo per mano e ci stringiamo attorno alla bitta dei venti collocata nel luogo perfetto per capirne provenienza e forza. Mi avverte Rino: «Domani torna la bora. Più fredda».
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