La festa e la devozione
Quest’anno ci si è dovuto vestire pesante. Maglioni, giacconi, pantaloni da fango, difese contro la pioggia e il vento gelido. Soprattutto buone scarpe. Pasqua è capitata bassa nel 2024. I Santi hanno aspettato il giorno della Resurrezione per incamminarsi verso i boschi della Basilicata. Un lungo viaggio: tra una primavera ancora esitante e il settembre che già annuncia i venti dell’autunno, tra le rocce aguzze delle Dolomiti Lucane e la montagna corale del Pollino si celebrano, con euforia e fatica, le piccole/grandi, ancora sconosciute, feste degli alberi. I santi hanno un primo appuntamento, uno di loro deve affrettarsi.
Nel martedì che succede la Pasqua i paesani di Pedali, piccolo centro del versante sud-occidentale del Pollino, salgono le pendici della Montagna da Basso. Lassù hanno già eretto le baracche destinate a ospitarli in notti gelide. Al mattino gli uomini ravvivano le braci sopite dei fuochi notturni. La colazione è abbondante. C’è un albero, un grande faggio, da tagliare. Il rito prevede il suo sacrificio. A Pedali, frazione del comune di Viggianello, paese più grande del capoluogo, due giorni dopo la Pasqua comincia davvero la stagione lucana dei «Maggi», delle grandi cerimonie arboree.
Nell’intera regione sono ben undici i «Maggi» che ripopolano i boschi ed eccitano la vita dei paesi. Gli antropologi li hanno definiti «matrimoni degli alberi», due alberi che si uniscono, si trasformano in un unico tronco che verrà alzato nella piazza del paese. Il matrimonio è una metafora troppo forte, troppo perfetta, ma io credo che alla gente di questa montagna prema, più delle parole degli antropologi, la devozione e la festa. Quando il cristianesimo si accorse della forza simbolica di questi riti, decise che un Santo doveva accompagnarli e proteggerli. Doveva incoraggiare la gente del paese. A Pedali è san Francesco da Paola, il santo eremita della Calabria. Altrove è san Giuliano o sant’Alessandro. Ma, nella maggior parte dei paesi lucani, è sant’Antonio. I riti arborei sono un patto tra l’uomo, la natura e il sacro: se chiedo agli uomini dei Maggi le ragioni della festa, mi rispondono sempre: «devozione».
In Pollino, il faggio, a’ Pitu, viene unita alla Rocca, un abete. Si celebra così il passaggio delle stagioni, il mutamento e la trasformazione della natura. Per la gente di questi paesi, i giorni della Festa sono ebbrezza, fatica, lavoro durissimo, offerte di cibo e denaro. È la festa dell’anno, sono giorni ai quali si aggrappa la contemporaneità di questi paesi di un’Italia interna, di un Appennino lontano. Non dimenticherò mai Andrea, un vecchio che, alla vigilia dei suoi 100 anni, un solo dente in bocca, mi disse: «Finché c’è la Festa, c’è il paese». Chi è lontano, chi è emigrato fa di tutto per tornare nella sua terra nei giorni della Festa.
Ecco, in due giorni di lavoro, a’ Pitu di Pedali è tagliata, sfrondata, ripulita, trasportata fuori dal bosco: ora è pronta al viaggio verso il paese. Un corteo di buoi è in attesa per trascinarla verso l’incontro con la Rocca, l’abete, proveniente dalla dorsale del Pollino. A chi lavora, a chi assiste, a chi cammina con l’albero si offrono cannarìcoli, dolcetti di farina e olio passati in mosto d’uva, e vino. Organetti e zampogne accompagnano la discesa a valle. Fino alla chiesa, fino alla benedizione finale, fino all’ultima fatica: alzare l’albero, qualche ragazzo coraggioso vi si arrampicherà.
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