Sono forse io il custode di mio fratello?
Le prime domande che Dio pone all’uomo, secondo il libro della Genesi, sono inquietanti e non lasciano dormire la polvere sui muri incrostati di egoismo dei nostri cuori. Dopo aver colto il frutto proibito dall’albero della conoscenza del bene e del male, Adamo ed Eva si nascondono dalla presenza di Dio. «Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”» (Gen 3,9). Questa disarmonia nell’ordine della creazione, causata dal peccato, provoca disordine, inquietudine, paura, perdita della propria dignità. Si scappa dalla presenza di Dio, ma anche dalla presenza a se stessi. E si avverte, dolorosa e disarmante, una frattura profonda con l’altro: si comincia col colpevolizzare l’altro, sfuggendo la propria responsabilità: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato» (Gen 3,12).
La disarmonia dell’uomo con Dio e con se stesso si riverbera nelle relazioni con l’altro: la rivolta produce violenza e Caino alza la mano contro il fratello Abele e lo uccide. Qui Dio pone la seconda domanda che inchioda ogni essere umano alla responsabilità verso l’altro: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Irritante la risposta di Caino: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). Siamo forse noi i custodi di chi ci sta accanto? Non sono certo il primo a porre questa domanda. Tutta la filosofia ebraica del ’900 da Emmanuel Lévinas ad Hans Jonas, da Martin Buber a Edith Stein, fino a Max Picard, parte da questa domanda del quarto capitolo della Genesi: «Sono forse io il custode di mio fratello?».
È un tema meraviglioso, intrigante e anche faticoso. Perché dalla relazione con l’altro noi prendiamo le maggiori soddisfazioni, le maggiori gioie, i maggiori piaceri della nostra vita; ma anche i maggiori tormenti, le maggiori sofferenze, i maggiori turbamenti. Direi che le più grandi sofferenze derivano proprio dalle relazioni. Però nello stesso tempo non possiamo fare a meno di vivere questa dimensione, perché non siamo monadi, non siamo isole («nessun uomo è un’isola» scriveva John Donne), siamo esseri sociali e con questo ci dobbiamo confrontare. Dobbiamo imparare a vigilare sulla qualità delle nostre relazioni, perché possono essere divoranti. In nome dell’amore si possono soffocare altri esseri umani. Amori possessivi, invadenti, che incatenano invece che liberare e sprigionare gioia. Amicizia e amore non possono svilupparsi in forma di ansioso attaccamento reciproco.
Certo l’altro ci attrae, ci richiama, ma dobbiamo imparare che siamo anche abitati da un istinto di morte. L’altro è anche un intralcio, fin dai tempi di Caino e Abele (Cfr. S. Olianti – A. Jacopozzi, Lo sguardo dell’altro. Per un’etica della cura e della compassione, Emp). Per questo vanno ripensati e riproposti questi pensieri in un tempo, come quello attuale, in cui il cinismo sembra avere l’ultima parola, in cui le relazioni più sacre per l’essere umano vengono frantumate e dissacrate, in cui si preferisce erigere muri piuttosto che creare ponti e legami, in cui l’esperienza lacerante della solitudine e della incomunicabilità diventa la cifra di una vita angosciata, esibita come vita indipendente, che basta a se stessa. Un tempo in cui la solitudine diventa nausea della vita, perché «ogni essere nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione» (J.P. Sartre, La nausea, Einaudi).
Per sfuggire a questa morsa mortale di pessimismo e all’isola della solitudine non resta all’uomo che imparare a costruire ponti, relazioni ricche e nutrienti, come unico antidoto al baratro del nulla. Non resta che ritrovare lo sguardo dell’altro, perché solo il volto e lo sguardo dell’altro hanno il potere di umanizzarci pienamente, spezzando il giogo dell’isolamento e dell’anonimato e nobilitando pienamente la nostra dignità di persone. Caino non ha guardato Abele negli occhi, non ha incrociato il suo sguardo; per questo non lo ha visto e non ha potuto amarlo nella sua diversità. La compassione per uno sguardo è l’unica risposta possibile al mistero del male, perché ci sottrae all’indifferenza e alla pretesa di bastare a noi stessi.
Che fare allora per rispondere alle domande incalzanti che Dio pone a ogni essere umano e diventare, così, responsabili di ogni Abele che incontriamo sulla nostra strada?
Per esistere davvero e non solo vivacchiare, bisogna che la nostra vita sia bella, bisogna che noi diventiamo belli, affinando la nostra bellezza interiore, imparando ad accogliere l’altro come un dono e non come una minaccia, imparando ad amare davvero noi stessi con lo sguardo con cui ci ha amato chi ci ha dato la vita, imparando a vivere con cuore largo e pieno di compassione. Imparando a prenderci cura del destino dell’altro e di tutto ciò che ci circonda, ci avviciniamo al segreto di una vita riuscita e possiamo celebrare in ogni momento la nostra umanità e la gioia incontenibile di essere vivi. (S.Olianti- A. Jacopozzi, cit.). Quanta più passione si nutre nel prendersi cura dell’uomo, tanto più è possibile trovarsi sulla strada di Dio, come ci ha ricordato l’Abbé Pierre: «Ho cercato Dio e non l’ho trovato, ho cercato la mia anima e non l’ho trovata, ho cercato il fratello e vi ho trovato anche Dio e la mia anima».
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